Adonis Johnson è nato per combattere, non tanto perché è il figlio di Apollo Creed, il campione afroamericano che nella seconda metà degli anni ’70 diede i natali al pugile Rocky, invitandolo a giocarsi il mondiale nella più improbabile delle sfide pugilistiche che lo sport (e il cinema) ricordino. Adonis è nato per combattere per rinverdire un mito – ed è un motivo più che sufficiente in qualsiasi poema epico – e perché suo padre Apollo non lo ha mai conosciuto – motivo più che sufficiente in chiave psicanalitica. Questa premessa per ripulire il campo da giudizi in merito alla necessità di aggiungere un capitolo alla saga del pugile di Philadelphia, dopo l’inutile Rocky Balboa del 2006, e alla plausibilità dell’ennesima stra-ordinaria iperbole pugilistica raccontata in Creed – Nato per combattere. E che sia un’iperbole non c’è dubbio, come scontate saranno le reazioni dei pugili di professione, che difficilmente sentiranno veritieri il racconto del figlio del campione, che arriva a giocarsi il titolo dopo un solo match ufficiale in dodici round massacranti (cioè al massacro), che porteranno al verdetto ai punti.
Il film ricalca con alcune varianti i passaggi narrativi del Rocky di Avildsen (alla regia) e Stallone (alla sceneggiatura), che nell’America del dopo-Watergate e del dopo-Vietnam, portava a casa nel 1977 ben tre Oscar, a film, regia e montaggio. Nel ’76, la favola di un pugile italo-americano da sottoclou che per un capriccio del destino si ritrovava di fronte al campione nero, supportato dal suo quartiere, dall’amore timido di una commessa e da un allenatore che poco prima lo aveva scaricato; quarant’anni dopo, è il figlio in incognito di Apollo che dopo un’infanzia in riformatorio, per un ennesimo gioco del caso, sfida il campione bianco (ispanico), potendo contare su comprimari che vestono le stesse funzioni narrative. Non è però semplicemente un calco dell’originale. Il film, che questa volta non annovera Stallone tra gli sceneggiatori, permette a Ryan Coogler (già apprezzato regista di Prossima fermata Fruitvale Station) di sviluppare su un canovaccio noto un intreccio a tre, messo in moto da Adonis che, per trovare il padre sconosciuto e con esso la propria identità, ha bisogno di vestirne i panni e, per vestirne i panni senza soccombere, deve affidarsi a colui che meglio conosceva Apollo come pugile prima e come amico leale dopo, ovvero Rocky. Il percorso di preparazione che porta Adonis sul ring che conta è un voluto deja vu di “stazioni della Passione di Rocky” riviste e corrette dallo stesso Balboa, qui vecchio allenatore e maestro. L’eroe di tante battaglie fino all’ultima goccia di emoglobina adesso è un comprimario, finalmente consapevole della propria età, per cui tutti i riferimenti al passato, visivi e narrativi, che di tanto in tanto affiorano in Creed, non hanno fortunatamente il sapore della nostalgia, ma l’obiettivo di trasferire simbolicamente attraverso rituali consolidati l’aura mitologica del lottatore che vince partendo dal nulla: dai metodi di allenamento agli abiti indossati, dalla palestra alla scalinata del Museum of Art di Philadelphia. Oggetti e situazioni che puntellano il futuro già scritto di Adonis.
Non si scappa. Sappiamo tutti come andrà a finire il match che chiuderà il film; sappiamo tutti che questo Creed ne genererà un secondo, rafforzando l’idea di non essere di fronte al settimo capitolo di Rocky, che, anzi, dovrà presumibilmente morire perché la nuova stella brilli di luce propria.
La presenza paterna di Rocky, mentore di Adonis Creed, risolve una traccia che era corsa banale nei capitoli V e VI della saga, nella relazione tra il pugile, suo figlio Robert e un pupillo ribelle, presunto campione (nero). Ma il copione ancora non poteva fare a meno di Balboa, tanto lottatore e poco padre, perdendo di vista il tempo che già sfrigolava sul corpo pesante di Stallone, ridicolizzato dal tentativo patetico di riappropriarsi del suo personaggio ormai mummificato e dunque demitizzato. Così nel rincorrere il divo Balboa, Stallone fossilizzava il presente iniettandovi la sua disperata nostalgia per il passato. Ora, finalmente, uscito dal titolo del film, Rocky si fa da parte e non manca di ironizzare su questo voltar pagina. I dialoghi migliori sono quelli che accompagnano il corpo incriccato del vecchio campione. Boxare con l’ombra non è più fare il vuoto immaginando l’avversario, ma guardare il vuoto definitivo intorno al ring, preparandosi a lotte ben diverse. Ad esempio un cancro, come fu per Adriana. La morte finalmente aleggia e diventa plausibile su questo umano viale del tramonto.
In definitiva lo sguardo di Rocky a bordo ring che osserva con speranza Adonis Creed è il compendio di una storia cinematografica che è ben più che una serie di sequel. La resistenza di Stallone (che ogni tanto si è fatto Rambo) nel portarsi dentro Rocky, nel coincidere con Rocky, lo ha confuso così tanto con la finzione, da trasformare questo spin-off in una struggente dichiarazione di resa e, al tempo stesso, nella consacrazione di un personaggio che ha trovato l’umiltà di svestire i panni dell’eroe per lasciarsi trascinare via dal tempo. Il pugile, l’attore, l’uomo.
Alessandro Leone
Creed – Nato per combattere
Regia: Ryan Coogler. Sceneggiatura: Aaron Covington, Ryan Coogler. Fotografia: Maryse Alberti. Montaggio: Claudia Castello, Michael P. Shawver. Interpreti: Michael B. Jordan, Sylvester Stallone, Tessa Thompson, Phylicia Rashad. Origine: Usa, 2015. Durata: 133′.