La stranezza delle connessioni metacinematografiche porta subito a pensare, chissà perché, a un vecchio film di Jules Dassin (1948), La città nuda: un noir americano che, in un certo senso, riscrive le regole del genere, insufflandogli qualcosa di nuovo e atipico che molti critici hanno visto come imparentato con il neorealismo. Mentre i nostri registi rivoluzionavano il cinema, aprendolo a sapori innovativi e sentendosi finalmente liberi di dare sfogo alle proprie intuizioni, il mercato italiano ristagnava nel melodramma e nella commediola; oltreoceano, invece, guardavano alla nostra lezione, e in qualche misura la omaggiavano o se ne facevano più o meno inconsapevolmente sedurre. Basti pensare a qualcosa di altrettanto simile ma precedente addirittura al film di Dassin, La mia via (1944) di Leo McCarey, vincitore di ben sette premi Oscar nel 1945 e che invece pareva più ispirarsial realismo poetico di scuola francese.
Passano le decadi, la storia del cinema si evolve e da qualche anno assistiamo al fenomeno contrario. Prima Kore’eda, giapponese, che in Le verità (2019) interpreta il gusto francese dimostrando di non capirne nulla, o perlomeno di capirne quanto un italiano capisce di sushi. Adesso torna il redivivo vincitore dell’Oscar al miglior film con Il caso Spotlight (2015), Tom McCarthy, che omaggia anche lui una certa tendenza della cultura oltralpina, ma prodigandosi nell’operazione contraria. Kore’eda monumentalizzava, amplificava, sacralizzava; le sue immagini finivano per trasformarsi in icone pop, in astrazioni di un pensiero collettivo che ripescava nel cinema della qualità forme spettrali, mai esistite ma soltanto rielaborate in una nuova concettualizzazione della contemporaneità. McCarthy, mestierante dalle competenze brodose, che passa dal sociale alla Disney, va alla ricerca di una sua statura, e lo fa in modo assai curioso, ovvero per sottrazione. Prende la Francia, Marsiglia nel caso specifico, e la trasforma in una lurida cloaca di delinquenti e immigrati. La sua città è una sola, globalizzante periferia dell’immaginario, dove quei monumenti all’estetica che in Kore’eda diventavano giganti e gigioni, qui si fanno piccoli e insulsi. Criminali, tossici, neri, mulatti, povertà, ignoranza, omertà, scritte sui muri di eterni serpentoni di cemento tutti uguali come casermoni sovietici e via discorrendo.
Il feticcio di McCarthy è Matt Damon, la trabeazione su cui si regge la pellicola nella sua interezza, qui nella parte di un padre statunitense, un campagnolo con precedenti penali e una storia di alcol alle spalle, che vola a Marsiglia a visitare la figlia in carcere. La giovane (Abigail Breslin) è stata ingiustamente accusata dell’omicidio della coinquilina con cui aveva intrecciato una relazione sentimentale durante l’Erasmus; come nella miglior tradizione del melodramma a sfondo sociale, l’incontro prelude a un tentativo di riavvicinamento tra i due, confermato e anzi sottolineato, e da qui prende l’abbrivio la vicenda più interessante, da un biglietto che la ragazza imbosca nel palmo del genitore. Da questo canovaccio molto semplice, per cui la vittima chiede una revisione del processo in virtù di nuove prove assolutamente indiziarie, Damon comincerà a scontrarsi con un muro di indifferenza e menefreghismo che le autorità subito erigono alle sue richieste. È tutto un passaggio di uffici, avvocati, scrivanie, colloqui con una magistratura oscena, che non perde occasione per rimarcare la propria scarsezza intellettiva, l’assoluta inadeguatezza di ruolo, l’indifferenza nei confronti di tenui tracce e testimonianze che potrebbero dimostrarsi risolutive per riaprire il processo.
Fin qui niente di troppo insolito, tranne l’assenza di una logica superiore, di un pensiero guida alla base del film: sorvolando sulle caratterizzazioni banalissime, per cui i marsigliesi starebbero all’idea di Francia come la pizza a quella dell’italianità, davvero si prova una sorta di malfidente imbarazzo nel seguire l’eroismo di un padre (un po’ tonto, diciamocelo) che sostituendosi all’impotente giustizia locale diviene espertissimo detective e rischia davvero di risolvere il caso. Certo, il superomismo tipico di tanta cultura americana, anche e soprattutto cinematografica, di per sé giustificherebbe il meccanismo narrativo dell’uomo onesto solo contro un sistema intrinsecamente corrotto; e rientrerebbe comunque in quel patto implicito di sospensione dell’incredulità che da sempre ogni forma di intrattenimento sottoscrive con i propri fruitori. Ciononostante, la questione principale non sta tanto nella coesione narrativa che funziona finché rimane più o meno ancorata ai modelli del noir, quanto nel mezzo filaccioso e piuttosto indefinibile: dopo un inizio rispettoso del genere, e prima di un finale che il genere lo completa e lo riscatta, si apre un abisso di malfunzionamenti strutturali: digressioni lunghissime e personaggi secondari, compressi tra squarci di quotidiano degrado urbano e facce brutte per così dire pasoliniane. Vien da chiedersi in che direzione McCarthy voglia spingere il suo film, il dramma sociale, l’indagine introspettiva, lo psicologismo spicciolo?
L’idea era forse quella di ripensare il caso Meredith Kercher, sostituendo la burocrazia italiana a quella francese e depistare le eventuali accuse di revisionismo processuale che inevitabilmente ne sarebbero conseguite. Il risultato fa semmai il verso a Senza nessuna pietà (2014), noir italiano delle occasioni mancate che si arenava nella medesima e paludosa risacca di indecisionismo registico. Nemmeno la presenza della pur bravissima Camille Cottin dell’altrettanto valido Il mistero Henri Pick (2019) basta a riscattare un film adagiatosi su pause stranianti: quelle di un Matt Damon imbolsito, sempre e perennemente vestito da americano dell’Oklahoma (camicia e berretto, per fortuna McCarthy ci ha risparmiato le pannocchie) che non ci regala nessuna espressione degna di intelligenza tranne mettersi e levarsi gli occhiali da vista. D’accordo, c’è anche la citazione colto-cinefila al mektoub. Ma è una parentesi inutile come tutte le altre periegesi da suburra marsigliese, resa ancora più fastidiosa dal tentativo di recuperare un tono autoriale che, in fin dei conti, non appartiene a quasi nulla di ciò che ha filmato questo regista.
Marco Marchetti
La ragazza di Stillwater
Regia: Tom McCarthy. Sceneggiatura: Thomas Bidegain, Noé Debré, Marcus Hinchey, Tom McCarthy. Fotografia: Masanobu Takayanagi. Montaggio: Tom McArdle. Interpreti: Matt Damon, Abigail Breslin, Camille Cottin, Deanna Dunagan, Jake Washburn, Justin France. Origine: USA, 2021. Durata: 140′.