Ammiro moltissimo i thriller di Alfred Hitchcock. Il modo in cui una persona qualunque si ritrova coinvolta in un mondo altro. Anche se ogni passo che fa ha una sua logica, tuttavia la storia diventa sempre più folle. Amo quel genere e Hitchcock ne era il maestro. Sicuramente, ho cercato di inserire un elemento simile in L’uomo nell’ombra. È un tipo ordinario e senza nome, che svolge un lavoro che lo porta in un mondo straordinario. E noi andiamo in quel mondo con lui. Quello che mi affascina del genere thriller (e penso che Roman condivida) è la sua energia e carica narrativa.
Sono dichiarazioni di Robert Harris, scrittore inglese, ex ghost writer di Tony Blair, e autore del romanzo dal quale Roman Polański ha tratto l’omonimo film (L’uomo nell’ombra è l’inutile titolo italiano, che riesce a far slittare l’atmosfera dal gotico al crepuscolare). Ma si può davvero definire The Ghost Writer come fa Harris, che lo ha sceneggiato insieme al regista, un film hitchcockiano?
La suspense, quintessenza del thriller, secondo Hitchcock, è l’opposto della sorpresa: tutto sta nelle informazioni che vengono offerte al pubblico. E di informazioni The Ghost Writer si premura di fornirne persino troppe. Ne consegue che i momenti di vera e propria suspense siano ahimè pochi: la dice lunga che l’unico a restare impresso sia l’estenuante inseguimento in macchina (interpretata da una BMW: il product placement funziona a dovere) nel quale viene coinvolto il protagonista, un ghost-writer senza nome (Ewan Mac Gregor), nel corso delle sue ricerche sui misteri che ruotano intorno a Adam Lang (Pierce Brosnan), potente uomo politico, ex primo ministro britannico, del quale deve scrivere l’autobiografia (ogni riferimento a Tony Blair è puramente voluto ed accuratamente ribadito). Siamo nell’ambito del classico thriller politico ambientato ai nostri giorni, quelli della lotta al terrorismo e dei mezzi più o meno leciti impiegati dalle democrazie occidentali (anglo-sassoni in primis) per vincerla. Il messaggio è talmente esplicito che, arrivati a metà della proiezione, avremmo voglia di gridare: «Abbiamo capito: adesso fateci divertire!».
I pregi sono in gran parte concentrati nella prima parte: la messa in scena, in particolare l’ambientazione nella casa di Lang, situata sull’isola di Martha’s Vineyard (di fronte a Cape Cod, la penisola resa immortale da alcuni dei più bei quadri di Edward Hopper), e le condizioni pessime del clima (piove sempre) e del mare contribuiscono a creare un’atmosfera di rara efficacia narrativa. Anche perché il ghost-writer, catapultato in questo luogo fuori dal mondo, che verrà però assediato dai pacifisti e dai media, è davvero spaesato: la sua ironia sommessa (e britannica: anche lui è di origine inglese) sembra non trovare posto in quella roccaforte del potere, le cui enormi finestre vista spiaggia contribuiscono ad amplificare la furia del vento, della pioggia e del mare in burrasca. Ma è soprattutto la sua condizione di “fantasma”, di “non scrittore” a risultare fuori posto. Qui sì siamo dalle parti di Hitchcock: la suspense è creata dalla percezione, che lo spettatore avverte prima e più del personaggio, che c’è qualcosa che non va.
Finché si avverte nell’aria (e nel paesaggio) il senso di una minaccia incombente, la storia funziona. Poi cominciano i difetti della sceneggiatura che influiscono non poco sull’interesse del film. Il difetto più grande sta, purtroppo, in una certa macchinosa prevedibilità della storia (e soprattutto del suo scioglimento, dove la sorpresa prevale sulla suspense), ma anche nel fatto che i cattivi siano talmente cattivi – per principio, per preso partito – da non risultare, alla fine, per nulla cattivi (altro tradimento dell’aureo insegnamento hitchcockiano). Si potrebbe dire, sempre con Hitchcock, che è il problema del Mac Guffin, il pretesto, l’espediente, del tutto insignificante, che mette in moto l’azione. Ne L’uomo nell’ombra il Mac Guffin potrebbe essere il manoscritto dell’autobiografia di Lang gelosamente custodito nella sua villa (quello su cui ha lavorato il predecessore del protagonista). Ma esso viene caricato di un’importanza eccessiva (si rivelerà infatti indispensabile per lo scioglimento dell’enigma) con il risultato che, sacrificando appunto la tensione sull’altare della spiegazione, la storia si infiacchisce. Anche qui sarebbe stato prezioso ricordarsi delle parole del Maestro del brivido: «C’è un fenomeno curioso che accade immancabilmente quando lavoro per la prima volta con uno sceneggiatore; questo ha la tendenza a concentrare tutta la sua attenzione intorno al Mac Guffin e sono costretto a spiegargli che la cosa non ha alcuna importanza». Non sappiamo se Polański abbia fatto lo stesso discorso a Harris; non ce ne vorrà il regista polacco se sottoscriviamo umilmente la definizione di Mariarosa Mancuso de L’uomo nell’ombra come «un thriller hitchcockiano per dilettanti».
Roberto Mandile
(da “La Lanterna di Born”, n. 7)