RecensioniSliderVenezia 2015

La corte e un giudice con ermellino

la-corte-locandinaE’ un giudice a due cifre Xavier Racine (Fabrice Luchini). Quando condanna, non scende sotto i dieci anni. Presidente della Corte d’Assise di Saint-Omer, paese non lontano da Calais, nonostante un’influenza debilitante, Racine deve presiedere in aula al processo che vede imputato un disoccupato accusato di aver ucciso a calci la figlia di appena sette mesi. I lavori si aprono con il sorteggio dei giurati popolari, tra questi Ditte, un medico che il Presidente conobbe qualche anno prima in ospedale, ferito dopo un brutto incidente. La presenza della donna sembra addolcire Racine, che ha fama di burbero. I tre giorni che seguono servono ai giurati per comprendere quanto a volte la verità sia inafferrabile e i verdetti affatti scontati, e a Racine per confessare a Ditte il suo amore.
Christian Vincent, che firma regia e sceneggiatura (premiata nel 2015 all’ultima Mostra del cinema di Venezia), torna a lavorare con Fabrice Luchini, consacrato tra i migliori attori europei in circolazione (Coppa Volpi sempre a Venezia), per mettere in scena un testo scritto con un occhio al cinema e uno al teatro, tanto che non sorprenderebbe una futura trasposizione. Ambientato in un’aula del tribunale, e in poche altre location che spezzano l’iter processuale per stringere il racconto su Racine e Ditte, il film ruota ambiguamente sulla figura del giudice, maestro cerimoniere in aula, contraddistinto da freddo distacco e pensiero disciplinato dall’applicazione della Legge. Porporato, incorniciato dalla pelliccia d’ermellino, l’alta posizione gerarchica barcolla solo a causa di una sgradevole febbre influenzale, forse anche dalla separazione dalla moglie che lo ha confinato in una camera d’albergo. Almeno fino a quando la sorte non lo mette a tre poltrone di distanza da Ditte, di cui – scopriamo – qualche anno prima si era innamorato perdutamente su un lettino d’ospedale. A quel punto il volto di Racine si ammorbidisce sui lineamenti fiamminghi della donna e l’atteggiamento inquisitorio lascia spazio a una più pacata analisi dei la-cortefatti, che riguardano due giovani genitori alle prese con un drammatico infanticidio.
Vincent biforca così il racconto, fa correre su strade parallele la ricerca della verità in aula e i goffi tentativi di Racine di sedurre Ditte. Chi fa coincidere a tratti i due binari è ovviamente il giudice, con e senza ermellino. L’analisi dei dettagli è la chiave per scardinare i blindati che contengono i misteri, ma anche per avvicinare la complessità umana. Anche in amore. Lo sguardo di Racine tenta di decriptare Ditte in cerca di una speranza, mentre in aula si fissa sugli imputati, con una certezza: la verità è inconoscibile, ciò che è accaduto è possibile che rimanga sconosciuto, che le ricostruzioni siano parziali interpretazioni e che, nonostante la dialettica tra accusa e difesa sposti gradualmente verso quella verità, a volte bisogna accettare che rimanga inafferrabile. Racine è chiaro con i suoi giurati che si accapigliano inanellando una serie imbarazzante di frasi fatte: “la giustizia afferma i principi della Legge non della Verità”. Così un paio di scarpe che sembrava inchiodare il giovane presunto assassino, spostando il punto di vista e modificando i meccanismi del ragionamento con un chiaro sillogismo, arrivano in seguito a scagionarlo, aprendo strade tortuose per la chiusura del caso. Seguendo lo stesso ragionamento, Racine trasforma la delicata carezza di un medico ad un paziente sofferente in una calda dichiarazione d’amore, sapendo che potrebbe essere reinterpretato ulteriormente.


Strano oggetto questa commedia romantica, caustica a tratti ma infine morbida nel rassettare il caos quando il sipario si chiude. Vincent non sembra lavorare sui comprimari e soprattutto sul personaggio di Ditte con la stessa finezza di scrittura con cui plasma Racine. Sovente il regista sente il bisogno di dare ossigeno alla vicenda con esterni (fuori dall’aula) inutili, perdendo il funzionale impianto teatrale in cambio di immagini superflue, come la finestra sull’ospedale, pura didascalia che sovraimprime Ditte in camice bianco come una fata buona con i suoi pazienti. Il punto di vista del giudice è perso per poco, quanto basta per far sobbalzare la struttura del film dal suo robusto alloggiamento. E’ un rischio calcolato che qualcuno apprezzerà, mentre scontenterà altri. Come la verità del resto.

Alessandro Leone

La corte – L’hermine

Regia e sceneggiatura: Chrisitian Vincent. Fotografia: Laurent Dailland. Montaggio: Yves Deschamps. Interpreti: Fabrice Luchini, Sidse Babett Knudsen, Eva Lallier, Miss Ming, Berenice Sand. Origine: Francia, 2015. Durata: 98′.

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