In un’intervista non troppo lontana Paolo Villaggio aveva affermato di essere quasi certo di sopravvivere alla morte, come i grandi del cinema, come Fellini, come tutti gli artisti che restano oltre le nude spoglie mortali. E forse non aveva torto. Perché ancora oggi, a più di 40 anni di distanza dal suo primo ragionier Ugo Fantozzi, Villaggio sosta indisturbato nell’immaginario comune con una sfilza di frasi celebri, espressioni comiche, movenze. Fantozzi e il suo quasi gemello Fracchia, prima dei ruoli impegnati con Fellini, Olmi e Scola, ma non solo: la radio, la televisione, l’amicizia con Fabrizio De Andrè (suoi i testi di Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers e Il fannullone). Il comico, che poi nascondeva dietro la maschera – ed è un classico – sfumature malinconiche, soffriva davvero l’oblio del tempo. Quella sgradevole e martellante sensazione d’esser dimenticato, d’esser castigato dal nuovo, senza aver lasciato in definitiva nulla di duraturo. Villaggio come Totò, la vecchiaia che serba per il clown uno scantinato buio, lo sguardo che si perde nel vuoto, disorientato, interrogativo alla ricerca di un segno rassicurante. Sopravvivere alla morte. In questo desiderio l’attore abbatte ogni ipocrisia e si affida ai suoi personaggi per trattenere la persona reale. E poco importa che il personaggio sia Fantozzoooo, il più proletario tra gli impiegati, figura tragica di una società deformata dai e sui consumi, emblema di una classe eternamente emergente che guardava con un rivolo di bava alla bocca i megadirettori nascosti oltre le nuvole, nel paradiso inarrivabile dei benestanti. Uno dietro l’altro, fino a dieci Fantozzi e innumerevoli altre comiche, fino a sfibrare quegli stessi caratteri che avevano segnato un’epoca, fino al declino, una fase discendente – inevitabilmente discendente – specchio di un’Italia sfilacciata e senza identità di classe. Quella di oggi. Fantozzi l’immortale non vive forse dentro le nostre piccole tragicità di donne e uomini senza bussola, mediocri nella cultura in un paese che sembra aver sepolto il proprio alto retaggio. Questo sì, è vero oblio.
A.L.