Berlino 2016

La cinefilia dei Coen apre la Berlinale 2016, ma il vero capolavoro è Homo Sapiens di Geyrhalther

Cinema Cinema Cinema! Con Ave Cesare! i fratelli Coen sembrano dirci che c’è bisogno di fede per fare cinema hollywoodiano, con questa ricerca religiosa-cinefila si è aperta la Berlinale 2016 ma il meglio lo doveva dare la sera con la prima proiezione – nella sezione Forum –  di Homo Sapiens, il nuovo documentario di Nikolaus Geyralther, un film nel quale la fede per l’umanità sembra perdersi. Il regista austriaco è autore dell’immenso racconto umano homoOver the years, passato l’anno scorso in Forum, oltre che di Abendland, un viaggio stradale nella notte europea, Pripyat sulla catastrofe Chernobyl e Das Jahr nach Dayton sul post guerra in Bosnia. È regista assurdamente poco considerato, è troppo poco teorico e troppo umanista per piacere anche ai maître à penser del cinema documentario. Questo nuovo lavoro è un altro punto nella sua sterminata filmografia, che si intravede anche attraverso questo film, certe immagini sembrano uscire proprio da un mondo post-nucleare o post-guerra dei suoi precedenti film. Ma le immagini potrebbero essere anche prese da un film di fantascienza ambientato sul pianeta Terra dopo che è diventato inabitabile: edifici abbandonati, complessi residenziali, negozi, cinema, ospedali, uffici, scuole, una biblioteca, parchi di divertimento e prigioni. Tutti questi luoghi portano le tracce dell’esistenza umana e testimoniano una civiltà che ha portato avanti l’architettura, l’arte, l’industria dell’intrattenimento, le tecnologie, le ideologie, guerre e disastri ambientali. Ora la natura se li sta riprendendo: un bar coperto di muschio, felci che crescono tra le feci, alberi che ricrescono sopra a relitti industriali, o ancora un rifornito distributore di bevande analcoliche ora ricoperto di vegetazione, una discarica invasa, o carri armati nella foresta, germogli di erba alta dentro le crepe dell’asfalto. Gli uccelli che vagano nella cupola di un reattore dismesso, una folata di vento, i ritagli di carta che si mischiano con il rumore della pioggia. Tutto senza parole, un cinema che necessita il tempo per la contemplazione. Immagini, in campi lunghi, spesso incorniciate, sempre con telecamera fissa e con un senso geometrico degno di Piero della Francesca. Un cinema capace di sorprendere a ogni stacco, facendoci guardare fino in fondo nell’inquadratura per scovare qualcosa di inopportuno, di  inappropriato, di sconvolgente. Un cinema che fa pensare e pone domande assolute sulla post-apocalisse oggi. Non ci sono persone nel suo film, eppure – come suggerisce il titolo volutamente – è film che ci riguarda e che riguarda niente di meno che il futuro dell’umanità.

Sempre in Forum si sono visti altri film interessanti: ad esempio Tempestad della messicana Tatiana Huezo, un film che prometteva bene e che ha dalla sua tempestaparte una serie di immagini straordinarie, certamente lontane anni luci dal Messico da cartolina. Un gruppo di persone innocenti è accusato di traffico di esseri umani e gettato in prigione. Le autorità annunciano che hanno inferto un duro colpo alla criminalità organizzata; il pubblico è rassicurato… la regista racconta questo viaggio nell’incubo attraverso la voce di una giovane madre: innocente, derubata della sua libertà, e incarcerata in una prigione controllata dal Cartello. Tempestad è un road movie: 2.000 chilometri in autobus da Matamoros a Cancun, attraverso un paese tetro, freddo, ventoso. Uomini armati fino ai denti, polizia onnipresente in un paese impantanato in una guerra invisibile. Lo spettatore non vede mai la protagonista ma appena sente la sua voce. Le immagini creano spazio per la nostra immaginazione e ci aiutano a digerire la mostruosità del racconto. Quando creano identificazione, ci stanno ingannando, perché ci stanno invitando a pensare ad altre storie, altri destini. Il film stesso racconta una di queste, la storia di un artista del circo che ha perso la figlia. Questa scelta di due storie non collegate è necessaria per creare un distacco, ma forse è troppo teorica, confonde e anche quando il senso arriva non è così efficace. Comunque un film molto interessante che sa anche affascinare, guardare per credere le ultime immagini sottomarine con il violoncello che entra all’improvviso, pareva di essere nell’ignoto spazio profondo herzoghiano.
Interessante ma forse irrisolto Deadweight del tedesco Axel Koenzen, un film girato all’interno di una nave da cargo, racconta di Ahti Ikonen, il capitano della nave coinvolto in un incidente nel quale un membro filippino dell’equipaggiomuore, Ahti deve accettare la responsabilità. Girato come fosse un documentario, con camera a spalla e belle immagini, alla fine rimane solo un ritratto di questo uomo solitario e ambiguo. Un film che si perde nel finale nelle Filippine, non necessario e confuso.
Molto deludente invece l’ungherese Lily Lane, un film che inizia con la telecamera che scivola sopra una città di Lego, poi si sente un bambino canticchiare in voce fuori campo, un inizio promettente che però scivola via nel dimenticatoio, con la fiaba successiva raccontata dalla madre. Più tardi il film diventa un pastiche sul divorzio dei genitori con flashback e flashforward (scene di malattia, incontri, flussi di coscienza, scene in macchina, in barca, alla ricerca di qualcosa)  per cercare di dare interesse a un film che non ne ha. Piattissimo anche Toz bezi – Dust Cloth primo lungometraggio di Ahu Öztürk. Racconta di due donne delle pulizie di Istanbul, ma di origine curda: Nesrin ha cacciato il marito e per godere di benefici sociali ha bisogno di trovare un lavoro vero, The-Bacchus-Lady_Berliner_Filmfestivals_BerlinaleHatun invece sogna il mondo dei quartieri alla moda dove pulisce le appartamenti della classe media. Il suo desiderio è così forte che lei musulmana prega in una chiesa cristiana. Il film tenta di essere un sensibile ritratto di questa amicizia e dei conflitti tra le due donne, ma alla fine è più interessante come manuale di sociologia sulle differenze in una società come quella turca, piena di contraddizioni, che come film.

Passando a “Panorama”, per ora ho visto solo il convenzionale – nonostante la storia che racconta –  Jug-Yeo je neun yeu-ya- The bacchus lady di E J-yong, un fedelissimo della sezione, già  vincitore del premio del pubblico al Far East 2014 con il precedente My brillaint life. Il film racconta di Youn So (So young…), un’anziana prostituta che ha contratto la gonorrea lavora in un parco a Seoul, riesce a racimolare qualcosa di appena sufficiente per evitare l’accattonaggio, la sua storia s’incrocia con il ragazzino Min-ho e con vecchi clienti e amici che le chiedono una mano per superare l’ultimo pezzo di vita. Troppe cose per un film solo, a tratti diverte, a tratti cerca la via della commozione,  ma le svolte drammatiche sembrano calate dall’alto e non sempre credibili.

da Berlino, Claudio Casazza

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