Il cinema horror vive del mito. Non è un mistero. Il vero mistero è quello che aleggia attorno al mito, alla superstizione, alle leggende, alla religione. Cosa può far maggiore paura di ciò che non si conosce, di quello in cui si deve credere senza avere alcuna prova concreta. Ciò che sentiamo essere infinitamente buono, potrebbe diametralmente diventare l’estremamente malvagio, senza infrangere altro che dogmi imposti su basi arbitrarie. Così il cinema dell’orrore gioca con le sacre scritture, con demoni ancestrali, con libri dei morti scritti col sangue e rilegati in pelle umana. Culto e mito però possono essere considerati sinonimi, non è solo semantica la sensazione che il cinema horror sia una creatura cannibale che viva nutrendosi della sua stessa carne, andando ad affondare le mani nelle sue stesse viscere pulsanti per afferrare i capolavori non ancora digeriti ed espulsi dal suo apparato digerente. Così accade che le giovani leve registiche abbiano da confrontarsi coi culti che hanno generato la loro passione per il genere e che certe porte che non sarebbero dovute essere aperte una volta vengono spalancate nuovamente.
La sottile perversione del riesumare cadaveri per riportarli in vita con le tecnologie moderne, rievocando il mito del Prometeo moderno, un Frankenstein cinematografico, che riassembla i pezzi del passato ma che ha dimostrato di non essere più in grado di donare l’alito della vita alle creature che (qualche volta) ritornano nel buio delle sale.
In passato ci sono stati anche nobili precedenti, come il Nosferatu di Werner Herzog (1979) e La Mosca di David Cronenberg (1986), ma più di recente la serialità di questo killer è cresciuta nel ritmo. Possiamo fare un elenco a partire da Le colline hanno gli occhi, seguita da Non aprite quella porta, Venerdì 13, La città verrà distrutta all’alba fino a Nightmare, tanto per citare solo alcuni titoli, in cui il cinema horror omaggia se stesso senza riuscire a superare la sensazione di essere una semplice operazione di marketing per sfruttare un brand già noto. A onor del vero possiamo ricordare anche qualche isolato caso in cui la rilettura (dal forte connotato cinefilo) abbia prodotto interessanti risultati, come nel caso di Halloween firmato dall’ex-rockstar Rob Zombie.
C’era parecchia curiosità quindi sul remake di Evil Dead (La casa), forse uno dei maggiori culti della storia dell’horror, firmato nel 1981 (e poi ancora nel 1987) da Sam Raimi, che per altro ha supervisionato il reboot firmato dall’esordiente Fede Alvarez, diventato celeberrimo per il corto di fantascienza fai-da-te Ataque de Panico! (potete vederlo qui http://www.youtube.com/watch?v=-dadPWhEhVk).
I presupposti per un progetto interessante c’erano, ma già dalle prime notizie di corridoio c’era chi aveva iniziato ad urlare al sacrilegio. Ma non è proprio il sacro e il culto il cibo di cui si nutre il cinema horror?
La creatura che ha preso vita è un ibrido, di ottima fattura e che soddisferà i palati più grossolani di appassionati di carne al sangue, ma che lascia aperte tutte le questioni legate al dilemma chiamato reboot. Il confronto con l’originale è impietoso, sebbene il digitale permetta effetti sbalorditivi, si sente la mancanza delle protesi del geniale Tom Savini, manca la presenza dell’attore feticcio Bruce Campbell ma soprattutto è totalmente assente la vena di dark-comedy che pervade il cinema di Sam Raimi. Ma a ben pensarci, il vero sacrilegio sarebbe stato perpetrato se questi ingredienti fossero stati presenti!
Carlo Prevosti
La casa
Regia: Fede Alvarez. Sceneggiatura: F. Alvarez, Rodo Sayagues, Diablo Cody, Sam Raimi. Fotografia: Aaron Morton. Interpreti: Jane Levy, Jessica Lucas, Shiloh Fernandez, Lou Taylor Pucci, Elizabeth Blackmore. Origine: Usa, 2013. Durata: 91′.