Terrence Malick e il suo cinema sembrano in attesa. Sospesi tra The Three of Life e un progetto che possa rinnovare una poetica che pare girare costantemente attorno agli stessi versi in rima. To the Wonder già sembrava un film interlocutorio, meno ambizioso da un punto di vista produttivo. Knight of Cups ne sviluppa l’idea di a-narratività, abolendo quasi del tutto il racconto per diventare puro flusso di coscienza. Malick come un angelo wendersiano all’ascolto.
Questa volta non è una coppia in crisi, ma uno sceneggiatore (Christian Bale) in cerca di se stesso nell’acquario delle futilità: sui set fotografici, nei caotici festini a Hollywood, nei locali notturni, passando da un rapporto occasionale all’altro, affondato nella Grande Bellezza che si riduce a lustrini e scintillii senza sostanza. Rick non è alle prese con un soggetto, non straccia fogli di sceneggiatura, piuttosto è prigioniero di uno stallo che sembra invincibile. Sullo sfondo la relazione difficile con il padre e il fratello, in testa una fiaba che lo stesso padre gli raccontava da bambino e che adesso risuona, dopo un terremoto che pare scuoterlo dal torpore. Segnali di Big One? La sua ex moglie (Cate Blanchett) è emblema di un fallimento affettivo che invece sembrava promettere l’eternità; Elizabeth (Natalie Portman) è la spinta verso il futuro, la voglia di amare e vivere che si rinnova spazzando via le tante fughe in altrettante donne: amore e non più semplice esperienza d’amore.
Lontani gli echi cristologici, Knight of Cups trasuda orientalismo (tra buddhismo e induismo). Diviso in capitoli intitolati con carte dei tarocchi, ogni segmento ha una sua circolarità ripetitiva, si susseguono inizi e fini, dove prevale l’immanenza e l’impossibilità di liberarsi dal fango della materia. E’ il Samsara di Rick. I suoi pensieri girano come un criceto che corre sulla ruota immaginando spazi aperti. Malick, che supporta il flusso ininterrotto di coscienza con immagini come sempre maestose, grazie anche alla splendida fotografia di Emmanuel Lubezki, finisce – come il suo protagonista – a ripercorrere terreni (anche visivi) già battuti ampiamente. Anche la macchina da presa gira alla “maniera di Malick”, seguendo i personaggi con moto ondulatorio, tagliando spesso le teste, inclinandosi, roteando, scendendo sui piedi e allargando sugli orizzonti, incantandosi sul mare e il bagnasciuga, sullo spettacolo della natura (ma ben lontani dal significato che poteva avere nei suoi film precedenti). Le interferenze delle voci over delle sue occasionali compagne interferiscono, spezzano, spostano il monologo, ma non sempre funzionano, almeno fino a quando non si chiude con Elizabeth, il personaggio femminile a cui Malick sembra dare maggiore credito, non per niente fuori dal circuito spettacolare losangelino. Il regista monta un collage di libere associazioni, di sprazzi di vita incisi in un groviglio temporale senza coordinate, di intuizioni filosofiche, ma la “meraviglia”, il “sublime”, l'”incanto”, sembrano intrappolati in quelli che sono diventati i luoghi comuni malickiani. Il film come un arcano dei tarocchi ma senza mistero, lontano dal farsi archetipo ancestrale.
Questa fantasmagoria di immagini sembra virare verso la video-arte, il film come sperimentazione in cerca di dettagli vibranti del mondo che possano ingaggiare storie di vita e di coscienze in grado di afferrare l’irrappresentabile, ovvero il mistero dell’esistenza. E se le risposte non si perdessero al largo di quella linea immaginaria che separa la terra e il cielo? Sedotto e incatenato dalle sue metafore, Malick siede in sala d’attesa, a un passo dal moksha e da un grande definitivo film che sia elegiaco, trascendentalista, cristiano, buddhista, heideggeriano, o semplicemente una poesia di immagini senza parole. Ci piacerebbe.
Alessandro Leone
Knight of Cups
Sceneggiatura e regia: Terrence Malick. Fotografia: Emmanuel Lubezki. Montaggio: Mark Yoshikawa. Interpreti: Christian Bale, Cate Blanchett, Natalie Portman, Joel Kinnaman, Wes Bentley, Isabel Lucas, Imogen Poots, Freida Pinto, Teresa Palmer, Antonio Banderas, Ryan O’Neal. Origine: Usa, 2015. Durata: 118′.