Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
Keyhole
Regia: Guy Maddin Sceneggiatura: Guy Maddin, George Toles. Fotografia: Benjamin Kasulke Montaggio: John Gurdebeke. Musica: Jason Staczek. Interpreti: Jason Patric, Isabella Rossellini, Udo Kier, Kevin McDonald, Brooke Pallson. Origine: Canada. Anno: 2012. Durata: 93 min.
Da cosa partire? Naturalmente dalla grande casa immersa nelle ombre che conchiude (e conclude) l’intera vicenda narrata dal canadese Guy Maddin. O forse dalla banda di gangster anni quaranta che, asserragliata in un salotto retrò, trench e cappellacci, pupe e giarrettiere, attende disperatamente l’arrivo del boss, Ulysses, mentre fuori impazzano mitragliate e gragnole di proiettili sparati dalla polizia. Oppure dai fantasmi che infestano i corridoi immersi nell’oscurità, queste immagini diafane che appaiono dal nulla per girovagare tra i viventi, ottenebrandoli con un sospiro, accarezzandone i volti sudati per sparire di nuovo nel passato. Difficile dirlo, perché Keyhole, inedito in Italia ma presentato in festival internazionali quali Toronto e Berlino 2012, è esattamente quello che succede quando si spia nel buco della serratura: le cose appaiono distorte, le proporzioni seguono geometrie innovative, e tutto ciò che si direbbe appartenere a un piano di realtà, si confonde d’improvviso tra le intercapedini di mondi lunari e paralleli. Il regista è uno famosissimo in Canada: viene dall’arte, dalle installazioni e dal cinema sperimentale, con una specializzazione in bianco e nero d’essai e pellicole mute. Senza scomodare le gratifiche di cui è stato insignito in oltre venticinque anni di carriera, l’uomo ha addirittura realizzato un Dracula nel 2002, privo di sonoro e con tanto di didascalie. Tanto per inquadrare il tipo…
Questa volta la fonte di ispirazione è il noir americano dei tempi andati, con tutti gli stilemi che la tradizione comporta: fotografia in bianco e nero piena di contrasti chiaroscurali (curata dal geniale Benjamin Kasulke), ricostruzioni d’interni, abbigliamento filologicamente corretto, e musiche d’atmosfera tra classicità e innovazione. Le somiglianze finiscono però qui, perché le vicende preferiscono inanellarsi in una struttura a scatola cinese, in cui ogni storia fa da preludio a una storia più piccola, che a sua volta si interseca con le suggestioni di un racconto di fantasmi fino a perdersi in un garbuglio allucinatorio di strane congetture. Il protagonista Ulysses (Jason Patric) è in fin dei conti il nuovo cantore omerico del delirio, lui che capeggia una banda di malavitosi, mostrandosi gangster deciso e all’occorrenza spietato, ma che presto abbandona i propri doveri professionali per immergersi nei budelli dell’abitazione alla ricerca della moglie scomparsa (Isabella Rossellini). D’improvviso appare una ragazza (forse) annegata, e un vecchio completamente nudo si aggira al piano di sopra con una lunga catena che lo lega al letto della figlia. Mentre Ulysses si abbandona all’esplorazione di quell’ambiente ostile, pieno di rientranze, di porte sull’altrove, di voragini tra scomposizioni di realtà e percezioni ipnagogiche, ecco che i tasselli disseminati dal bravissimo Maddin cominciano a saldarsi l’uno con (dentro) l’altro, e ogni incubo diviene la traccia mentale di un ricordo.
Dal poliziesco d’antan alle insinuazioni di un Lynch particolarmente cupo, dai tafferugli del proibizionismo al più incontrollato flusso di coscienza (delle immagini più che delle parole), Keyhole diviene metafora di ciò che (non) è (più) il cinema: la morte al lavoro e il lavoro sulla morte. È allora un grande viaggio nell’inconscio, quello del nostro navigatore di sogni, fatto alla scoperta di cose rimosse, percezioni, momenti di vita ormai perdutisi nell’oblio. D’altronde è proprio questo che sono i fantasmi: immagini senza tempo, circoscritti a uno spazio ipotizzabile che dà forma alle colpe tutti ci portiamo dentro. Eppure non c’è modo per fermare il tempo, nemmeno i tentativi disperati messi in atto dallo stesso Ulysses per alterare pendole e orologi, e rallentare così la corsa delle lancette. E mentre l’alba si avvicina, quella stessa alba che da sempre scaccia la paura del buio, Ulysses si allontana sempre più dai suoi compagni, per perlustrare l’ignoto e scivolare in passaggi segreti e misteriose fessure. Regalandoci momenti di tragica bellezza, strascichi di dolore e rimpianto, come la dichiarazione d’affetto per il corpo ormai senza vita del fedelissimo Heatly, adottato dallo stesso criminale dopo che questi gli aveva assassinato il figlio. Oppure il momento in cui il dottor Lempke (Udo Kier), chiamato nottetempo per visitare la ragazza annegata (o meglio, che sta annegando, proprio come uno spettro costretto a inscenare la propria scomparsa) rievoca la morte del figlio: deceduto quel pomeriggio per una banale caduta mentre tentava di rimuovere un nido di vespe, gli insetti che hanno fatto scempio del cadavere.
Presto anche lo spettatore si perde nelle distorsioni di un cinema squisitamente percettivo, e nel tentativo di seguire il filo labirintico delle sue peregrinazioni mentali, ecco che si imbatte nella chiave più adatta ad aprire la magica porta di Alice: la grande odissea del quotidiano, come ci ha insegnato Joyce, non è mai un viaggio nell’iperrealismo delle impressioni, ma un’onirica immersione nel grande nulla della mente. Dove abitano i fantasmi, dove si rifugiano i nostri più inconfessabili misfatti.
Marco Marchetti