Tra le belle cose del recentissimo 41° Torino Film Festival ci sono alcune produzioni italiane nell’ambito del documentario che meritano attenzione e un recupero.
Partiamo da Un ritratto in movimento – Omaggio a Mimmo Jodice di Mario Martone, ora a disposizione su RaiPlay dopo essere andato in onda venerdì 22 dicembre su RaiTre. Un ritratto del grande fotografo napoletano da parte del regista suo concittadino che va a coglierne le origini al quartiere Sanità, il luogo che ne ha segnato il modo di guardare le cose e il mondo e quindi fotografarle. Martone raccoglie la semplicità delle parole di Jodice e del suo gesto, sempre essenziale, facendone uscire il carisma tranquillo. Accanto alle testimonianze del protagonista ci sono le contestualizzazioni e i commenti di Stefano Boeri, Marino Niola o Francesco Vezzoli o della moglie Angela, figura fondamentale per il lavoro del fotografo. Accanto all’artista ne esce una Napoli popolare e sempre nuova, ben colta dalle immagini di Elio Di Pace. “Vorrei ricominciare da capo”, dice Jodice nel finale, quasi condensando l’entusiasmo e la vita che ha riversato nella sua attività.
Fuori concorso è passato Berchidda Live di Michele Mellara, Alessandro Rossi e Gianfranco Cabiddu, una storia del festival musicale Jazz in Time creato da Paolo Fresu nel 1988 nel suo paese natale. Un piccolo e antico borgo del nord Sardegna diventato luogo di riferimento e ritrovo per molti appassionati di musica. Il documentario alterna interviste d’archivio allo stesso Fresu a partire dal 1989 con immagini di diversa provenienza delle tante edizioni e brevi testimonianze di alcuni degli ospiti. Parte del repertorio è filmato da Cabiddu, che si aggiunse dal 1994: arrivato per coinvolgere il trombettista in una sonorizzazione, restò a documentare le vicende di Time in Jazz. Dal film esce lo spirito di un piccolo festival nato dal volontariato: Fresu lo ideò per ravvivare il suo paese e nei decenni ha creato un comunità di ascoltatori e musicisti che si sentono accolti e lo riconoscono come un punto di riferimento. Berchidda, anziché lo spopolamento o l’invecchiamento di tante località simili, rivive grazie alla musica e rianima il circondario. Il film offre bellissimi scenari naturali, angoli suggestivi e restituisce le atmosfere di concerti memorabili e momenti di svago unici, come le improvvisazioni di Gianluca Petrella in piscina. I bolognesi Mellara e Rossi, con Cabiddu, non si accontentano di realizzare il classico documentario con materiali d’archivio, ma lo coniugano al presente e al futuro. Se all’inizio Berchidda Live sembra una semplice storia e testimonianza, piano piano si apre e cresce, diviene una riflessione musicale (tantissimi gli ospiti, dei quali si sentono solo porzioni dei brani, e finale con la Kocani Orchestra) sul senso del fare le cose e di avere un posto nel mondo. Un’opera tanto coinvolgente che, quasi all’improvviso, ci si ritrova ai titoli di coda.
Sfugge alle collocazioni Le belle estati di Mauro Santini, realizzato con la partecipazione degli studenti del Liceo Mengaroni di Pesaro. I ragazzi leggono e interpretano i due romanzi brevi di Cesare Pavese, La bella estate (1940) e Il diavolo sulle colline (1948), ma le vicende si alternano e quasi si mescolano. Si passa da un racconto all’altro, con brevi intermezzi su statue o edifici o paesaggi: come punteggiatura o intermezzo, più dalle parti della musica che della letteratura. A volte i ragazzi commentano i personaggi delle storie e ne rivivono vicende ed emozioni con i loro occhi. Così i liceali di oggi si ritrovano in Pavese, facendolo loro anche nella distanza temporale e lessicale, e quelli di ieri paiono quasi attuali, parlando di amore, pudore, solitudine, insicurezze, futuro e dubbi esistenziali. Le due vicende riescono a intersecarsi quasi magicamente, quasi a diventare una sola, un racconto estivo di ragazze e di ragazzi. In un momento storico in cui il punto di vista maschile e femminile sembrano divaricarsi, Santini trova il modo dialettico per metterli in comunicazione anche nelle differenze di approccio ai sentimenti e alle cose. Santini intreccia cinema narrativo, sperimentale e documentario in un filo nel quale risultano indivisibili eppure così presenti a dargli resistenza e calore e colore. E anche le immagini sono molto belle e mai illustrative.
Molto curioso è A Stranger Quest di Andrea Gatopoulos con il collezionista americano di carte geografiche David Rumsey. Una passione nata quasi per caso, nel 1978 durante un viaggio con un amico: attraversando un deserto con una mappa troppo vaga, si ritrovarono da un’altra parte rispetto alla destinazione e furono salvati da un camion di passaggio. Da allora prese a raccogliere ogni tipo di carta e di globo, estendendo a dismisura la collezione, ora ospitata all’università di Stanford. Un altro passaggio è stata la digitalizzazione per poter condividere i materiali (facilmente consultabili in internet), aprendo prospettive che prima erano impensabili, dal camminare dentro le mappe all’esperienza in Second Life. Tra la carta e l’immateriale, tra l’analogico e il digitale si muovono anche il regista e l’operatore, che filmano come se stessero mappando e mescolano le immagini reali con quelle in CGI, accompagnandole con le musiche ipnotiche ed espressive. Per Rumsey la raccolta è come un poema, così il pensiero della propria fine si accompagna a quello dell’incompiutezza del progetto e dalla geografia (e l’arte e la storia) si giunge presto alla filosofia. Il protagonista si interroga (e pure il navigatore dell’auto gli pone domande) e si risponde continuando a cercare e a curiosare. Si osservano le vedute di Urbano Monti a fine XVI secolo che gli permettono di ironizzare sul terrapiattismo e le tante implicazioni del mappare: una volta serviva anche a far pagare le tasse, nel futuro potrà essere così di dettaglio da violare la privacy delle persone. Tra curiosità, scoperte e riflessioni, senza trattenere un attimo di commozione, un film sperimentale e sentimentale proprio come può essere la geografia.
Nicola Falcinella