Di documentari su Hollywood ne abbiamo visti tanti. Dello Star System non ci stancheremmo mai di misurare le ombre di corpi per nulla leggeri, di sezionare la carne sotto la pellicola, di attenuare i controluce sulle sagome per cogliere i cromatismi caratteriali dei divi, di scoprire quanto spettacolare sia stata nella Golden Age del cinema americano la ricerca della normalità nella golemica fabbrica dei sogni. Hollywood che dona e nella stessa misura toglie. Hollywood, creatura infernale, che si divora i suoi miti, mentre le ruote dentate della macchina girano incessantemente e alimentano l’immaginario di mezzo mondo, fino ad arrivare ai confini più remoti delle terre emerse.
Ingrid Bergman è storia di diva che incrocia la storia degli Studios, partendo dalla lontana Svezia, per ritornare in Europa e farsi testimone di estetiche e modi di fare cinema agli antipodi. La Bergman di Gustaf Molander, la Bergman di Fleming, Curtiz, Cukor, Hitchcock, la Bergman europea di Rossellini e Renoir, poi di nuovo americana con Litvak, fino alla sinfonia del suo autunno a servizio di un altro Bergman, Ingmar. Tutto fa spettacolo, ma con grazia. Anche gli scandali, l’abbandono del primo letto e della piccola Pia (Lindström), per correre tra le braccia di Roberto Rossellini, che nel ’50 la trasforma nella sua musa (sei film in cinque anni), dopo la liaison con il fotografo Robert Capa. Un figlio e due gemelle, la famiglia unita con Pia, poi un altro strappo e un nuovo abbandono, mentre Roberto si innamora dell’India. A Hollywood le perdonano il tradimento, così la Santa poi Puttana, ritorna Santa incoronata (due Oscar – per Anastasia e Assassinio sull’Orient Exspress – che si aggiungono al precedente – Angoscia, firmato da George Cukor). Quanto basta per una ricostruzione densa di spunti drammaturgici.
Ma il documentario di Stig Björkman, fortemente voluto da Isabella Rossellini, è anche un (quasi) tutto su mia madre, racconto familiare, intimo, sofferto. E’ una fotografia d’epoca che si anima, producendo una copia difforme dell’immagine immacolata che serbavamo di Ingrid. L’attrice sfida la madre, e vince sempre. Ogni chiamata alla finzione dei set e dei palcoscenici americani ed europei ribalta in sofferenza il breve scorcio di paradiso affettivo, che solo una famiglia unita riesce a disegnare nella vita di un bambino. Ingrid era lei – sospira Pia. La gioia di un attimo e la consapevolezza adolescenziale di quanto la mamma trovasse nel cinema la piena realizzazione di sé. Björkman setaccia i diari, le lettere e i super8 dell’attrice, documentazione limpida delle gioie e la sovrimpressione di un dolore taciuto. I doveri di moglie e madre sovrastati dalla professione, che non è solo professione ma risposta all’impulso fortissimo di libertà. Una scissione che si riverbera nei colori accesi dei “filmini” da lei girati durante i viaggi con Peter Lindström, nella loro bella villa con piscina e la macchina da presa puntata su Pia e, in seguito sui tre figli italiani; il suo lungo viaggio in Italia con Roberto, cinema nel cinema.
La vita come desiderio e sogno rivelato, ma anche perpetua tensione verso l’inafferrabile, come se concretizzare desideri e sogni non fosse mai sufficientemente appagante. C’è chi ci ha lasciato le penne a Hollywood per questo. La Bergman invece ha controllato la sua corsa, in definitiva mai folle, attenuando anche la profondità delle ombre lunghe sulla sua carriera, quando le “sentenze Hays” ne bocciarono la condotta. Una donna sul filo, in equilibrio anche per merito dei figli, la cui relazione se è stata liquida, lo è stata per un’idea di vita che non poteva che essere fluida. E quanta acqua scorre in questo melò, le emozioni si sciolgono e si mescolano nelle piscine in cui Ingrid e i figli si immergono per condividere un totalizzante abbraccio amniotico sulle note della partitura perfetta, inconfondibile, di Michael Nyman, il più melodrammatico tra i musicisti prestati al cinema.
Alessandro Leone
Io sono Ingrid
Regia: Stig Björkman. Fotografia: Malin Korkeasalo. Montaggio: Dominika Daubenbuchel. Musica: Michael Nyman. Origine: Svezia, 2015. Durata: 114′.