Seconda edizione del concorso IO, CRITICO, da quest’anno intitolato alla nostra collaboratrice Giulia Colella recentemente scomparsa. Aperto agli studenti degli istituti superiori della provincia di Varese, l’edizione 2015 si è chiusa con la premiazione durante la serata inaugurale di Esterno Notte, la rassegna estiva di cinema all’aperto che da ventotto anni movimenta la città giardino e altre piazze della provincia.
Di seguito pubblichiamo le recensioni di Virginia Gazziero (Grand Budapest Hotel) e Michele Innocenzio (Mia madre), vincitrici ex aequo del primo premio, e quelle di Luca Romano (Prisoners) e Stefano Mazzotta (Lo sciacallo), che si sono aggiudicate ex aequo il secondo premio.
PRIMO PREMIO EX AEQUO
Grand Budapest Hotel – regia di Wes Anderson
È un albergo in decadenza, il Grand Budapest, appollaiato sulle montagne di un immaginario paese dell’Europa dell’Est, Zubrowka, che vive nel ricordo dei suoi giorni d’oro, quando l’odore dei costosi profumi dei ricchi ospiti aleggiava nell’aria, l’atrio era percorso dalle voci dei presenti che si cercavano, e il suono delle auto che arrivano e partono, portando con sé clienti stravaganti, ricche e anziane ereditiere alla ricerca di qualcosa per evadere dalla vita di città, e importanti uomini d’affari, si udiva ad ogni ora del giorno.
Ormai però, di quella atmosfera esuberante e affascinante non rimane altro che il ricordo del vecchio proprietario, Zero Mustafà (F. Murray Abraham), che attraverso le sue parole fa rivivere quel vecchio albergo, riportandolo indietro a quegli ultimi giorni gloriosi, all’inizio degli Anni Trenta, quando non era altro che un semplice fattorino alle dipendenze dell’eccentrico Monsieur Gustave H. (Ralph Fiennes), direttore e proprietario dell’hotel, pronto a soddisfare ogni bisogno dei suoi ospiti, in particolare delle anziane ereditiere che frequentano l’albergo.
Sarà proprio la misteriosa morte di una delle ospiti più frequenti, Madame D. (Tilda Swinton), a far sì che, dopo la lettura del testamento della donna, la vita del giovane Zero (Tony Revolori) e di Monsieur Gustave, divenuto nel frattempo, per il giovane, un amico e un modello, cambi radicalmente: accusato dell’omicidio dell’anziana signora dai parenti di questa, l’uomo sarà costretto a scappare e nascondersi, aiutato da Zero e Agatha (Saoirse Roran), giovane pasticcera che ha rubato il cuore al fattorino; da quel momento in poi le vicende diventeranno sempre più incalzanti e veloci, fino al tragicomico finale, che chiuderà il sipario sulle vicende dei protagonisti.
Grand Budapest Hotel (regia di Wes Anderson), si presenta fin dall’inizio come una commedia caratterizzata da una forte ironia, capace di stregare e di trascinare lo spettatore all’interno della storia, dove personaggi eccentrici e stravaganti entrano ed escono dalla scena, dando origine ad un’atmosfera vivace e particolare, che incanta come solo una fiaba riesce a fare. Ma Grand Budapest Hotel non è solo questo: dietro alle battute di ogni personaggio, dietro ad ogni azione, c’è un meccanismo profondamente umano, che lo caratterizza in ogni sua sfaccettatura – ognuno dei protagonisti viene esaminato e approfondito, rendendolo molto più che una macchietta.
Contribuisce a creare l’atmosfera della favola non solo la cornice ad incastro, che crea un racconto nel racconto, ma anche la scenografia e gli sfondi, che ricordano i paesaggi delle fiabe, costruiti senza l’ausilio di effetti speciali o sfondo verde, caratteristica tipica di Anderson.
In conclusione, questo film è un piccolo capolavoro, che riflette e fa riflettere su temi importanti, ma senza pretendere di farlo, il cui finale lascerà sorpresi e forse leggermente amareggiati, ma con la consapevolezza che non poteva finire diversamente.
(Virginia Gazziero)
Mia madre – regia di Nanni Moretti
Sarebbe riduttivo considerare Mia Madre come un semplice dramma familiare o come il resoconto smielato e banale di un lutto. Nanni Moretti ha tentato di esprimere la suggestività della lotta nel cercare un senso di fronte alla morte con un film caratterizzato da una potenza evocativa tale da persuaderci che essa non sia la storia di un dolore a noi estraneo, che quella raccontata non sia la morte di sua madre, ma che sia la morte della madre di ciascuno di noi.
Non è né una storia di lutto né una storia di sofferenza, ma è una storia di accettazione del dolore. È un tentativo di ricordare la gioia dei semplici affetti familiari, così spesso svalutati e dimenticati. Il personaggio di Giulia Lazzarini, la madre malata, vera protagonista del film con la sua performance straordinaria, arriva ad accettare la propria fine più di quanto non lo facciano i figli: vede la felicità nei gesti familiari, nel sentirsi ancora utile e amata nonostante gli anni da insegnante siano passati da tempo; non vuole pensare al passato e ai vecchi aneddoti come quella coppia noiosa che la viene a trovare in ospedale: lei vuole vivere nel momento, perché la vita è così come si presenta nell’istante in cui viene vissuta. Quando alla fine del film le viene chiesto, “A cosa pensi?”, lei dice, “Al domani”, gli occhi azzurri aperti ad abbracciare la serenità del futuro.
Il film gioca su un continuo alternarsi tra sogno e realtà, aspettativa e effettività, in un contrasto che spesso si risolve in chiave ironica provocando un’immediata risata catartica (specialmente grazie alle scene comiche offerte da John Turturro). Il personaggio interpretato da Margherita Buy si getta nel sogno, e insieme a lei lo spettatore, scagliato nella confusione dei suoi pensieri, dei suoi risvegli improvvisi, delle sue considerazioni sulla vita che spesso non innescano altro che un sentimento di frustrazione. Il personaggio interpretato da John Turturro invece passa la sua vita a recitare, non è mai serio: così come è incapace di memorizzare le sue battute, è incapace di dire la verità. Si arrabbia, urla, ma così come le finte bottiglie di champagne sulla scena, egli è un uomo finto nel teatro del mondo, un uomo che nasconde se stesso piuttosto che affrontare la mediocrità della vita.
Moretti si pone una sfida nel film: vuole uscire dagli schemi, creare qualcosa di originale, sperimentare tecniche cinematografiche nuove, calare il lettore in atmosfere oniriche che non sembrino mai fittizie o eccessivamente teatrali. Moretti ha vinto la sfida: ha creato una storia elegante e sofisticata che non cede nemmeno per un attimo, nemmeno quando potrebbe apparire giustificabile, alla banalità. Ci guida per mano nella sua reminescenza onirica e la rende universale: vediamo in Ada nostra madre, la nostra insegnate del liceo, un’amica distante ma mai dimenticata. Desideriamo essere lì per accarezzarle la mano, per salutarla un’ultima volta. Ne piangiamo la morte, commossi dalla sua dolcezza.
(Michele Innocenzio)
Prisoners – regia di Denis Villeneuve
Keller Dover (Hugh Jackman) è un uomo qualunque che vive con la sua splendida famiglia in una tranquilla cittadina di provincia nello stato della Pennsylvania. Fin da piccolo è stato educato da suo padre ad affrontare ogni difficoltà che la vita gli pone davanti, ma come reagirà di fronte alla misteriosa scomparsa di sua figlia? Attenderà inerme che il detective Loki (Jake Gyllenhaal) risolva il caso oppure cercherà di farsi giustizia da solo come Sean Penn in Mystic River? Questa è la trama di Prisoners, film del 2013, prima opera hollywoodiana del regista franco-canadese Denis Villeneuve, già autore dell’apprezzato La donna cha canta (nomination all’Oscar come miglior film straniero nel 2011). Ad un primo sguardo potremmo trovarci di fronte ad un thriller di genere, ma le indagini del detective Loki, ostacolate da depistaggi e dal sistema giudiziario, scavando nelle vite apparentemente rispettabili degli abitanti della cittadina e svelando l’inquietante verità che si nasconde dietro la scomparsa della bambina, pongono lo spettatore di fronte alle paure, alle ossessioni e alle angosce di una società americana che ha smarrito la fiducia in se stessa. Attraverso la piccola realtà della provincia Villeneuve affronta con occhio critico e profondità temi delicati come la pedofilia, le deviazioni della religione, la sfiducia nella legge che spinge ad una giustizia privata che diventa violenza crudele e sadica. Un aspetto che rende molto avvincente la pellicola è la climax che si instaura man mano che la storia progredisce: si parte da un episodio di cronaca che potrebbe capitare a chiunque (la scomparsa di una persona cara), fino a sfociare in una realtà dai connotati sempre più assurdi e cruenti. Grazie alla scelta di immagini molto forti (come quelle della tortura del presunto assassino da parte di Keller) e ad una regia incalzante e ricca di colpi di scena, lo spettatore, prigioniero in un labirinto (indizio rivelatore nel film) di dubbi, si trova immerso in uno stato di continua tensione e suspence, che lo incollano allo schermo, nonostante le due ore e mezza di proiezione. Il film raggiunge così il livello di altri thriller che trattano tematiche analoghe, come Mystic River e Man on fire. Ma il pathos suscitato dalla pellicola è frutto anche della magistrale interpretazione di un insolito Hugh Jackman (più noto per il ruolo di Wolverine nei film Marvel), Jack Gyllenhaal, Paul Dano e Maria Bello, i cui personaggi sono tratteggiati con uno scavo psicologico atipico: prigioniero delle circostanze o delle proprie nevrosi oppure della paura, ciascuno di loro reagirà in maniera diversa per trovare la via d’uscita dal labirinto della propria “Alcatraz”. Prisoners è un ottimo film, con una trama coinvolgente e inquietante, che allo stesso tempo spinge a riflettere su temi non facili da trattare, smascherando le menzogne dietro cui spesso si nascondono gli orrori delle persone “perbene”.
(Luca Romano)
Lo sciacallo – regia di Dan Gilroy
La cronaca nera è sempre più una bramosa necessità della nostra società, quasi una forma di macabro erotismo, di ingorda passione per il funereo, come se ci servisse qualcosa che costantemente ci ricordi la nostra dimensione mortale.
Lou Bloom è un ladro di materiali edili che sfrutta le sue abilità imprenditoriali e di abnegazione per intraprendere una scalata all’interno del difficile mondo del lavoro seguendo il mito del American Dream, ma nessuno assume un ladro. Il momento di svolta è puramente casuale: Lou assiste ad un incidente stradale e osservando una troupe televisiva, presente per riprendere l’accaduto, realizza che questa sarebbe potuta essere la sua strada. Utilizzando la sua esperienza da ladro acquista un’attrezzatura e con l’aiuto di un collaboratore incomincia a muoversi per le strade di Los Angeles in cerca di crimini e incidenti per poi vendere le riprese ad un’emittente televisiva dalla dubbia etica. Lou attraverso un climax incomincerà a superare i limiti prestabiliti precipitando in un cinismo spietato che porterà a conseguenze letali.
Il personaggio sociopatico interpretato da Jake Gyllenhaal, che ricorda il Norman Bates di Psycho, sembrerebbe essere un personaggio positivo che affronta un percorso di formazione, dotato di spirito di sacrificio nonché di grande abilità diplomatica e retorica, non fosse per la mancanza di scrupoli e della sete di ambizione che ci rivela fin dalla prima scena.
Il regista Dan Gilroy riprende il tema dell’uomo-cinepresa, dell’impassibilità e dell’estraneità del protagonista di pirandelliana memoria adattandolo ad una descrizione fredda dell’impostazione cinica dei mass media, per le strade noir di Los Angeles Lou incontra soltanto vittime e carnefici, è esclusa ogni possibilità di contatto con l’umanità delle persone poiché tutto è visto in prospettiva di guadagno e di pathos. Viene meno l’immediata adesione alla forma, alla società e allora guardiamo, con distacco, noi stessi agire in essa tramite delle riprese: diventiamo estranei a noi stessi. Ma Lou in fondo è anche egli una vittima della società, il suo personaggio nasce dalla mancanza di valori condivisi e di guide, non ha un’educazione formale ma soltanto nozioni apprese attraverso internet; è dotato però di grande acume grazie al quale fa tesoro di ogni esperienza per poi migliorarsi e riprendere la sua inesorabile scalata utilitaristica verso il successo.
Questa pellicola inquietante, enigmatica e adrenalinica è perciò più di quanto sembri a prima vista e mantiene il pubblico incollato allo schermo soprattutto grazie alla straordinaria performance di Gyllenhaal che porta il pubblico a dubitare di tutto e di tutti, soprattutto del proprio protagonista.