Il quarantesimo compleanno di Videodrome merita senz’altro qualche considerazione: queste quattro decadi, che il cinema lo hanno citato e sintetizzato, decostruito e certamente ripensato nella sua architettura, hanno prodotto un’articolata esegesi sul capolavoro di David Cronenberg. Il termine più rappresentativo è forse impiegato da Gianni Canova, interprete e biografo del regista canadese, che ha sfoderato più volte e in vari passaggi il concetto di stratificazione nelle sue varie declinazioni: pellicola pluristratificata e paradigmatica. E lui, come altri, ricorrono agli strumenti di decodificazione massmediologica, dissertando, e a ragion veduta, di influsso delle immagini televisive nella quotidianità, di uno studio intenso e disperato sul cervello dell’uomo e sul rapporto con l’immaginario collettivo. Possiamo oggi parlare di una nuova lettura di Videodrome? Cioè di un’interpretazione che tenga sì conto di ciò che è stato scritto, ma che ne attualizzi la forma? In effetti di Videodrome ricordiamo tutti la sequenza mostruosa di James Woods con il ventre trasformato in una specie di organo mutante, che si apre per accogliere e per così dire divorare, metabolizzare e consumare una videocassetta. Era il 1983, epoca matta e ricchissima di trasformazioni massmediologiche, di televisioni private, trasmissioni pirata e videoregistratori che rapidamente e con scarsissimo preavviso indirizzavano la società verso la sua ulteriore evoluzione: quella dell’homovidens, creatura-immagine fagocitata e spettacolarizzata, almeno oggi, dalle reti sociali.
In un certo senso la pellicola di Cronenberg è il punto di arrivo di una tendenza della contemporaneità che affonda radici nei decenni precedenti. Basti pensare a quanto segue: nell’ottobre del 1934, a Marsiglia, il re di Jugoslavia Alessandro Karadjordjevic viene assassinato durante una visita diplomatica. Parliamo del più tipico tra i moventi, quello anarchico, che aveva già mietuto tra le illustri vittime il Re d’Italia Umberto I e l’arciduca della casa d’Asburgo Francesco Ferdinando. Notevole è però lo scarto tra questo e gli altri casi citati perché qui, per la prima volta, la morte viene filmata. Durante la sparatoria che causa l’omicidio del re di Jugoslavia, un cineoperatore riprende il tutto. Doveva trattarsi del materiale di un ordinario cinegiornale, ma quel coraggioso cameraman, sfidando i proiettili volanti e i tafferugli della folla impazzita, il panico di massa e l’orrore del delitto, corre all’arrembaggio della vettura su cui viaggia la vittima: una carrellata non dissimile da quella con cui Gillo Pontecorvo avrebbe inscenato il suicidio di Emanuelle Riva in Kapò, e a cui Jacques Rivette avrebbe dedicato il suo noto saggio sull’estetica della morte. Se andiamo a guardare il filmato, Alessandro di Jugoslavia muore a modo suo: cioè non come ci aspetterebbe da una persona qualsiasi, ma appunto come un sovrano, un divo sublime e lontanissimo dalle umane tensioni. Si reclina all’indietro, il volto esangue, un’espressione perduta da cui si innalza il sospiro cereo dell’imminente dipartita. Nessun testimone avrebbe potuto descrivere l’immagine della morte, uno dei primissimi snuff movie della storiografia, con parole più poetiche e tenebrose della realtà filmata e riprodotta. Il re è davvero messo a nudo, mutato in un’idea astratta, una specie di concetto aristotelico che assurge alla sua veridicità assiomatica. Non sembra nemmeno un re, ma un grande attore dell’epoca del muto come Rodolfo Valentino alla sua miglior prova. Questo momento ha rappresentato un’accidentale rivoluzione copernicana nella storia delle immagini, una specie di svolta che ha ribaltato la dialettica con cui il cinema si presentava ai suoi esordi: leggenda vuole che nel gennaio 1896 un pubblico ancora inesperto si fosse lasciato prendere dal panico di fronte al filmato di un treno che raggiungeva sferragliando la stazione. Si esclamava: sembra vero. Nemmeno quarant’anni dopo, a Marsiglia, la percezione cambia radicalmente: pare un film!
Nel novembre del 1963 abbiamo un ulteriore aggiustamento di prospettiva: la vittima è un presidente degli Stati Uniti, John F. Kennedy, che di nuovo è filmato da un cineoperatore: Abraham Zapruder. Forse proprio in omaggio alla peculiarità della ripresa (amatoriale quella di Zapruder e invece ufficiale, dotata di imprimatur giornalistico quella di Alessandro di Jugoslavia), Kennedy non può certo morire come un aristocratico: la sua dipartita ne dissacra l’aura presidenziale per tornare prepotentemente alla materialità del segno, anzi al determinismo del simbolo. In quel momento, Kennedy è di nuovo persona ordinaria, ma la sua immagine, quella di una morte filmata nel suo divenire tale, nel suo presentarsi come forma di se stessa, lo sottopone di nuovo a un ulteriore processo di mutazione iconografica: il meccanismo non è dissimile dalle operazioni seriali di Andy Warhol; lì il divo era ricondotto alla sua riproducibilità tecnica, alla volgarizzazione del proprio simulacro, qui invece avviene il contrario: è il divo a trasmutarsi in impalpabile apparenza cinematografica, è l’unicum della sua esistenza e della sua scomparsa a serializzarsi in declinazione infinitamente modulabile.
Questa continua contaminazione tra immagine e immaginario ci ha resi partecipi di un modo inedito di intendere il contemporaneo, di fondare in un certo senso una nuova teoretica dell’essere al cui paradigma sono ricondotti i rapporti biunivoci tra sguardo individuale e sguardo sociale. Videodrome è stato allora un documento cardine per meglio comprendere questa incessante ridefinizione e codificazione di una moderna Weltanschauung, ed è proprio la sua lezione oggi diremmo “retro-futuristica” che ci permette di leggere l’immagine del contemporaneo come parte integrante di un testo in continua variazione. Pensiamo soltanto al conflitto che vede contrapposte Russia e Ucraina (e quindi due divergenti Weltanschauung basate su narrazioni antitetiche). Se è vero che, per citare Jacques Derrida, non esiste nulla al di fuori del testo, e che il testo medesimo è un processo in costante revisione e ripensamento, allora oggi il testo coincide con le possibilità “ontogenetiche” dell’immagine. Non dobbiamo stupirci che proprio il cinema, e i luoghi del potere cinematografico come i grandi festival internazionali, si siano rivelati trampolini di lancio obbligato per un presidente-attore come Wolodymyr Zelensky. A maggio 2022 fa la sua comparsa in videocollegamento a Cannes, usando il cinema come grimaldello sentimentale per spingere il mondo occidentale, e soprattutto la sua borghesia progressista e acculturata, a prestar sostegno alla causa ucraina. Che è una causa esistenzialmente bellica. E lo fa citando Chaplin (“Serve un nuovo Chaplin per dimostrare che il mondo oggi non è muto”) e Apocalypse Now. Zelensky parla un linguaggio popolare, usa e sfrutta importanti elementi dell’immaginario cinematografico per raccontare la guerra come un grande film d’avventura: un film certamente tragico, ma intriso di gloria, spirito combattivo, valori profondi e degni di un’opera di Steven Spielberg. In parallelo fioccano gli interventi censori: i film di registi sospettati di essere vicini al Cremlino vengono banditi, si dà ampio spazio a registi ucraini come Sergei Loznitsa, e addirittura viene cambiato il titolo del film d’apertura di Michel Hazanavicius: FinalCut al posto di Z per evitare spiacevoli fraintendimenti con il simbolo usato dai russi nella campagna di invasione.
Lo stesso copione si ripete pochi mesi dopo a Venezia: qui il presidente ucraino, sempre in videocollegamento, elenca i 358 nomi di bambini e minorenni che fino a quel momento hanno perso la vita sotto le bombe nemiche. Zelensky racconta e motiva le platee di spettatori con la stessa retorica che lo ha reso celebre in patria. In fin dei conti la sua stessa esistenza politica è una sorta di riverenza non dichiarata alla lezione del regista canadese: nel 2015 produce una fortunatissima serie televisiva intitolata Servitore del popolo in cui interpreta la parte di un professore di liceo che lancia strali contro la corruzione dilagante nel suo paese. Un suo studente lo filma, posta il video in rete e subito l’ordinario ma onesto insegnante diventa un divo dei social. Di lì alla politica il passo è breve: senza quasi averne coscienza, il professore è fatto presidente. Non sarà un comune capo di stato, ma un rappresentante del popolo capace, incorruttibile, di alto profilo come l’Ucraina non ne ha mai visti.
Nel 2018 Zelensky fonda un partito politico che porta il nome della serie che lo ha lanciato nell’empireo delle star televisive. Servitore del popolo, appunto: dal serial mediatico al parlamento reale in un gioco di metalinguaggi che si complica, si ingarbuglia, si scompone e ricostruisce in un grande e incomprensibile ginepraio di significati. Un professore di liceo di una serie televisiva diventa presidente per finta. Un attore che ha recitato la parte del presidente per finta finisce per trasformarsi in vero e carismatico leader politico a cui è affidato il compito di unire l’intero Occidente in una crociata comune: quella per la libertà. E lo fa, di nuovo e forse senza nemmeno troppa consapevolezza, sfruttando quello stesso immaginario che ne ha determinato l’inaspettata e meteoritica parabola.
Il cerchio si chiude: il Novecento comincia un po’ prima con il filmato di alcuni operai che escono dalla fabbrica, o con l’immagine di un treno alla banchina; e il nuovo millennio si apre un po’ dopo, con l’iconografia di due torri che si accartocciano e una guerra (mondiale?) raccontata come un film in divenire.
Marco Marchetti