Critico cinematografico milanese, Alberto Pezzotta ha scritto sulle principali testate di settore distribuite a livello nazionale (Nocturno, Ciak, Segnocinema, Duellanti, Cineforum, Blow Up) nonché su prestigiosi quotidiani quali Il corriere della sera e l’Unità. Autore di numerose monografie dedicate al cinema di genere (Mario Bava, Clint Eastwood e Abel Ferrara tra le principali), è stato selezionatore a Venezia per il periodo 2008-2011. Insegnante, traduttore, collabora con il dizionario dei film Mereghetti, ed è stato tra i primi studiosi del cinema di Hong Kong. Tra le sue ultime pubblicazioni, segnaliamo Il western italiano (ed. Il Castoro, 2012) e Ridere civilmente: il cinema di Luigi Zampa (ed. Cineteca di Bologna, 2012).
La domanda di rito è, ovviamente, come hai cominciato e quando.
Ho cominciato molto giovane, e probabilmente troppo giovane, quando ancora facevo gli ultimi anni di liceo e mandavo i miei pezzi a Filmcritica, che è una rivista che esiste ancora, e me li pubblicarono troppo presto. Probabilmente un editing di maestri più severi, meno indulgenti e meno tolleranti mi avrebbe fatto meglio: le cose che ho scritto erano abbastanza scombiccherate, a rivederle con il senno di poi, quindi c’erano tutti i vezzi di una critica cinefila, vecchio stile, un po’ intorcinata su se stessa dalla quale mi sono spero liberato dopo qualche anno. I primi pezzi che ho scritto per Filmcritica, allora diciottenne, erano su Mario Bava e Clint Eastwood, e nel corso degli anni queste due passioni, sono continuate, e magari dopo dieci o quindici anni scrivevo una cosa su Bava, rivedevo i suoi film, e mi dicevo: mi piacerà ancora? o sono cambiato al punto che non mi piacerà più? E invece questi interessi sono continuati, cambiando motivazioni, penso.
Tu hai scritto un po’ ovunque, prima su Filmcritica, poi su Nocturno, hai collaborato con il Mereghetti, hai scritto, anzi, scrivi ancora sul Corriere della sera, hai scritto su l’Unità… Ma come sei riuscito a passare da un giornale all’altro, testate completamente diverse tra loro?
Su l’Unità scrivevo di libri… Ho sempre cercato di non stare sempre nel ghetto di un solo tipo di scrittura, di un solo tipo di critica, di un solo tipo di cinefilia. Ho scritto su Nocturno quando il cinema di genere non era ancora moda. E ho scritto cose di ambizioni più accademiche; le ultime che ho scritto, di fatto, sono lavori penso da storico del cinema più che da critico. Il fatto di scrivere sui quotidiani è anche una necessità alimentare. Il tentativo è di non tradirsi, di non perdere un certo rigore di argomentazione; se scrivi su un quotidiano, e devi far capire che un film di Sokurov o un film di Herzog è un film da vedere, adoperando il minimo spazio a disposizione, non devi banalizzare eccessivamente, e non abbassare troppo il livello.
Sempre stando in tema, qual è il rapporto, soprattutto oggi o negli ultimi anni, tra la critica cinematografica e la stampa generalista? C’è qualche longa manus editoriale che in qualche modo controlla la critica, e spinge un critico a scrivere cose che magari in realtà non pensa?
Secondo me, questo sui quotidiani non avviene in nessun modo, perché i quotidiani non hanno interessi economici in gioco. Io conosco Mereghetti da vent’anni, da dieci anni fa il critico cinematografico per Il corriere della sera e mai l’ho visto dover fare i conti con dei diktat dall’alto o con cose di questo tipo. Per quanto riguarda la critica dei quotidiani, io non ho mai patito condizionamenti, non c’è nessuno a dirti parla bene del film italiano perché è un film italiano. Poi magari il regista scrive una lettera per lamentarsi, ed è successo, e questo rientra nella libertà della stampa. Quello che dicevi tu, e che può esserci effettivamente, riguarda una rivista di cinema vive di pubblicità, o un sito di cinema vive di banner e pubblicità. Se un film fa un banner su un sito, o fa un’anteprima con questo sito, difficilmente lì troverai una stroncatura di quel film. Questa è una cosa che esiste da sempre nella stampa specialistica, per cui chi fa pubblicità si aspetta poi che il suo film venga trattato bene. È una specie di tacito accordo, va nella logica delle cose, non è che questo sia corruzione, è un fatto in qualche modo inevitabile. Patisci di più questo tipo di condizionamento economico, mentre sui quotidiani assolutamente no.
Tu sei stato selezionatore a Venezia per quattro anni, dal 2008 al 2011. Come si selezionano i film? Quanti ce ne sono da guardare?
Ti posso dire della mia esperienza con Müller, perché non so come lavorino gli altri. Con lui quasi tutte le visioni erano collettive e condivise, e si vedeva una quantità di film mostruosa, stando tappati in sala dalle nove del mattino alle sette di sera.. Ti posso dire che in tutto potrebbero esserci seicento film; a volte si creavano dei sottogruppi in cui in due o tre ci si smazza pile di DVD.
Quindi a volte si guardano solo dei pezzi, e certi film si scartano a prescindere dopo averne visto, per esempio, giusto una mezzora…
A prescindere no, perché comunque tu l’inizio, il mezzo e la fine te lo devi vedere, per farti un’idea; comunque tutto è stato visto; certe cose dilettantesche capisci dopo dieci minuti di visione da che parte vanno a parare, anche perché non ci sono dei valori produttivi e formali da festival. Però tutto viene visto, niente viene scartato a prescindere. Tant’è che è capitato che venissero presi film mandati per posta da sconosciuti. È successo con un film del Kashmir, per esempio, che è arrivato in questo modo; si è visto, e si è detto, guarda, dopo venti minuti siamo ancora qua a vederlo… e infatti è finito a Orizzonti.
Ha senso oggi fare critica cinematografica tra siti internet, blog e cartacei che ormai stanno scomparendo? In Italia abbiamo una quantità pazzesca di portali virtuali dedicati all’argomento, quindi mi chiedevo quale potrebbe essere lo sviluppo della critica, sempre che essa si possa ancora considerare una professione.
È vero quello che dici, ed è una cosa su cui chiunque si occupi di critica riflette in questi ultimi anni senza sapersi dare, credo, una risposta precisa. La cosa che mi colpisce non è tanto la quantità di blog e di critici che ci sono. È che questa diffusione a macchia d’olio della critica cinematografica è inversamente proporzionale all’importanza che riveste il cinema oggi nell’economia e nel consumo culturale. È un dato di fatto che il cinema è un medium del secolo scorso, che negli ultimi anni l’importanza culturale del cinema è andata diminuendo, e questo si vede dal fatto che non c’è più un grosso dibattito culturale sul cinema: un film di Sokurov non suscita più le discussioni appassionanti e polemiche che cinquanta o trent’anni fa poteva suscitare un film di Antonioni, di Tarkovskij o di Bergman. Sono ben pochi i film che riescono ad arrivare al discorso comune e ad entrare a far parte di un dibattito delle idee contemporaneo. Il cinema è sempre più minoritario, e anche dal punto di vista economico ha perso moltissimo; e la cosa paradossale è che appunto in questa situazione di arretramento del cinema, dell’immaginario e del dibattito culturale, ci sia gente che vuole scrivere di cinema e che scrive di cinema, a volte improvvisandosi. Certo, non si può fare di tutta l’erba un fascio, però su internet c’è anche molta fuffa, checché ne dica Casaleggio. Detto questo, non ti so dare una risposta. Sicuramente il fatto che ci siano così tanti critici improvvisati e così tanti blog è una conseguenza del fatto che esiste internet, per cui chiunque si sente legittimato a esprimere una sua opinione: sulla politica, sullo sport o sul cinema, poco importa. Il web ha creato i critici.
Ora una domanda biografica: com’è nata questa tua passione per il cinema di genere?
Questo dipende anche dal fatto che in famiglia il cinema non era una cosa proibita o bandita, nel senso che per mio padre il cinema era Hitchcock, per esempio, e quindi guardare insieme sin da piccolo i film di Hitchcock mi portava verso un cinema che non era un cinema accademico e inamidato. Ho cominciato ad andare al cinema verso la fine degli anni Settanta, ed era un periodo in cui c’era moltissimo cinema in giro, nelle sale, nei cineclub, nelle televisioni private. A qualunque ora del giorno tu accendessi la televisione, c’era cinema, anche di genere, strano, cinema vietato ai minori che tu potevi vedere anche minorenne. Per cui nella mia formazione, l’amore per il cinema di genere è andato sempre di pari passo con quello di autori tradizionali. Io da piccolo, o da teenager, vedevo sia Buñuel che Ferreri che Mario Bava o le commediacce con Lino Banfi. Quindi non ho mai avuto una struttura gerarchica dentro la mia testa, che mi facesse dire questo è serio, questo è stupido. Il cinema mi interessa tutto, e il cinema di genere è una delle tante cose che mi interessano. Negli ultimi vent’anni c’è stata una rivalutazione aprioristica del cinema di genere, per cui quasi si è cercato di capovolgere una gerarchia tradizionale; per cui dire basta cinema impegnato, basta Rosi, Petri e Damiani, è meglio Alvaro Vitali o Mariano Laurenti. Ecco questo mi sembra altrettanto sbagliato rispetto a una visione accademica che invece mette il cinema di genere da un lato. Il cinema è fatto di tante cose, ci sono i grandi autori e il cinema di genere, chi ama il cinema riesce ad amarli tutti e due, senza fare gerarchie e senza a priori.
Ti è mai capitato di stroncare un film a prescindere, perché per esempio è di un regista che non è nelle tue corde? A me capita sempre con i film di Steven Soderbergh…
Forse vent’anni fa mi capitava, da grande cerco di non avere pregiudizi di alcun tipo. Purtroppo andare a vedere un film senza sapere qual è il nome del regista è impossibile, anche se certe volte, vedendo i film per Venezia, mi capitava di scoprirlo alla fine. Mi è capitato con The Milllionaire di Danny Boyle: non sapevo che fosse un film di quel regista, l’ho visto pensando: “che insulso film di Bollywood”. E quando ho scoperto che era di Boyle, non è che abbia cambiato idea… Quindi potevo vedere un film nella condizione di tabula rasa, che è quella ideale. A parte questo, cerco di non lasciarmi trascinare dai pregiudizi in positivo o in negativo; penso che ogni film nasca innanzitutto da situazioni economiche contingenti: per cui anche il regista più capace del mondo può dirigere un film sbagliato per motivi economici, e non per questo io lo devo salvare. E allo stesso modo, un regista che solitamente detesto può incappare in una sceneggiatura interessante, o fare qualcosa di valido. Tu mi parli di Soderbergh… Anche a me Soderbergh tendenzialmente non piace, dà fastidio, però ci sono dei suoi film che mi sono piaciuti molto. Il secondo film su Che Guevara lo trovo molto bello, anche se il primo è meno riuscito. Quindi quando succedono queste cose, bisogna cercare veramente di porsi in una condizione di tabula rasa nei confronti di quello che si sta per vedere. Io spero sempre che il prossimo film di Lars von Trier mi piaccia, per dire un regista che solitamente detesto, ciononostante anche nella filmografia di Lars von Trier trovo che The Kingdom sia una cosa bella, riuscita, divertente.
Ultima domanda: il tuo film preferito?
Non saprei dirlo, è troppo vasto il campo. Dovresti chiedere il film preferito nel cinema italiano, o meglio il film preferito nella commedia italiana… Se prendi un genere, un periodo, un anno, forse, allora riesco a dirtelo…
A cura di Marco Marchetti