In occasione della presentazione a Varese del suo ultimo lavoro, Se chiudo gli occhi non sono più qui (https://www.cinequanon.it/se-chiudo-gli-occhi-non-sono-piu-qui/), abbiamo incontrato Vittorio Moroni, regista e sceneggiatore non solo dei suoi film, avendo collaborato con diversi colleghi tra cui Crialese e Gassman.
Lei ha esordito con un film di finzione di discreto successo, ovvero Tu devi essere il lupo, poi è passato al documentario. Quale strappo emotivo ha determinato questa scelta?
Anzitutto l’illusione, cioè pensare che il sistema composto da tutte le persone che avevano lavorato con me potesse essere abbattuto per ottenere un rapporto più diretto con le storie e con i personaggi. Immaginavo che, organizzando troupe formate solo dalle pochissime maestranze necessarie e gestendo tutti gli aspetti delle riprese, compreso il fattore tempo, sarei stato più libero di dedicarmi a ciò che per me era davvero importante e mi sembrava che questo processo mi avrebbe aiutato a produrre qualcosa di interessante. Poi ho capito che quello che avevo guadagnato in termini di tempo l’avevo perso sul piano del controllo. Infatti mai avrei potuto credere di impiegare tre anni per realizzare Le ferie di Licu.
Mi sembra che questo suo secondo lavoro abbia rappresentato un punto di svolta nella sua vita professionale. Quali sfide si porta ancora dietro da quell’esperienza e quali invece ha definitivamente abbandonato?
Non sono sicuro di essere in grado di rispondere fino in fondo a questa domanda, nel senso che io stesso ancora me lo chiedo. Sicuramente la vitalità e le sorprese di quel modo di fare cinema sono qualcosa a cui non voglio più rinunciare, infatti anche in Se chiudo gli occhi non sono più qui ho cercato di costruire un dispositivo stilistico nel quale affluissero questi elementi tipici del documentario. D’altro canto però sentivo il bisogno di tornare ad orchestrare le cose sul set, di lavorare sulla struttura a livello di scrittura, di ponderare significati e non semplicemente di scoprirli. In definitiva posso dire che il campo magnetico tra la polarità della fiction e quella del documentario è il luogo in cui sento di dover stare per trovare il mio cinema. Da quell’esperienza ho comunque iniziato ad educarmi a controllare meno e meglio. Ho capito che se accetto le situazioni inaspettate avrò più significati da gestire e quindi alla fine sarò più contento del risultato.
Se chiudo gli occhi non sono più qui ha appunto una struttura registica piuttosto sperimentale. Secondo Lei, come si collocano pubblico ed industria cinematografica italiana di fronte ad un prodotto del genere?
A volte me lo chiedo anch’io. Mi sembra che la progressiva diminuzione degli spettatori nelle sale abbia portato ad una profonda divaricazione tra i film che sembrano essere pensati per portare al cinema masse di spettatori – e per i quali si fanno investimenti importanti nel campo della distribuzione – e quelli destinati ai festival e che per questo si concentrano sulle sperimentazioni, indagano il proprio sguardo piuttosto che cercare un reale dialogo col pubblico. Proprio il desiderio di incontrare le persone che vedono la mia opera mi spinge ad accompagnare il film nelle sale di tutta Italia. Questo viaggio, che dura ormai da quattro mesi, mi ha fatto constatare che esistono più spettatori di quanti ne avevamo previsti e mi porta a credere che dovremmo guardare al settore della distribuzione con nuovi criteri.
Quindi il rapporto tra autore indipendente e spettatore si è evoluto verso un incontro faccia a faccia piuttosto che con un indistinto pubblico di massa?
Forse sì, però devo dire che questo processo mi piace molto. Grazie ad esso ho potuto vedere gli spettatori come persone straordinarie capaci di restituirmi qualcosa di importante e di bello invece che come semplici numeri. La qualità di certi incontri, di certi commenti ed osservazioni, mi ripagano totalmente degli anni spesi per realizzare il film.
Come spettatore quali generi di film preferisce e quali invece stimolano la sua fantasia di autore?
Diciamo che io sono abbastanza onnivoro, quindi mi interessano anche generi di cinema diversissimi da quello che cerco di fare io e mi sento stimolato da alcuni tipi di opere, spesso straniere o di stampo documentaristico, che mi invogliano a tentare nuove sperimentazioni cinematografiche. Una lezione per me importantissima, anche se poi il mio cinema è molto diverso dal suo, è stata quella di Kiarostami. Per me ogni suo lavoro è una grande fonte d’ispirazione, mentre invece quando vedo un nuovo film di Matteo Garrone ho sempre la sensazione che lui si confronti con una propria esperienza di cose che vive. Eppure sono due esempi di autori che mi interessano e che quindi seguo. Non so però fino a che punto abbiano un’influenza sul mio percorso professionale. So che amo abitare quei loro mondi così particolari.
A questo punto mi viene spontaneo chiederle: come si incontra una buona storia?
Questa è una buona domanda alla quale penso di poter dare una risposta. Io sono spesso affascinato da tantissime storie diverse, molte di più rispetto a quante ne realizzo effettivamente. La scelta di un soggetto è per me determinata da due parametri fondamentali: non devo aver emesso un giudizio sulla vicenda, voglio anzi che sia così contraddittoria da pormi sempre nuovi interrogativi attraverso i quali costruire la narrazione assieme alla mia opinione. Non mi piace quel cinema che spara sentenze a priori sui personaggi. Io sostanzialmente mi impongo di non iniziare a lavorare finché non ho almeno una decina di intuizioni sulla storia stessa.
Secondo Lei esiste un efficace percorso formativo di tipo accademico per far crescere nuovi autori di cinema?
Non credo si possa insegnare a diventare poeti, scrittori o registi nel senso che non credo si possa preordinare un percorso per arrivare a diventare queste cose. Io sono contento d’aver frequentato la scuola di cinema, credo però che se c’è una reale vocazione lo studio da autodidatta sia importantissimo. In questo caso anche l’incontro con maestri, orientatori e persino compagni può essere una tappa fondamentale della propria formazione. Quindi non so se c’è la scuola giusta, ma so che nel campo del sapere ci si può sempre auto educare.
Nel suo ultimo film sono presenti attori affermati come Giorgio Colangeli e Beppe Fiorello ed esordienti. È stato difficile dirigerli in un impianto registico così aperto? Come ha lavorato con loro?
Li ho scelti in modi diversi, ma ho lavorato con tutti nella stessa maniera. Gli attori professionisti sono stati considerati in base alla mia conoscenza delle loro precedenti esperienze e seguendo un’intuizione sulle loro possibilità di fare dei ‘salti’ interpretativi. Con Beppe Fiorello ho contrastato la sua immagine di eroe positivo, affidandogli un ruolo da cattivo. Allo stesso modo con Giorgio Colangeli, che in genere è sempre chiamato a fare il popolano, ho preferito mettergli la veste del professore intellettuale. Ho creato così una distanza tra ciò che è noto di questi attori e ciò che volevo facessero per questo film. Viceversa con gli interpreti non professionisti ho orientato la mia ricerca verso persone che avessero storie simili a quelle dei personaggi e che quindi potessero trasferire su di essi il proprio bagaglio emotivo. Poi abbiamo impostato un meccanismo, valido per tutti, nel quale ognuno reagiva agli stimoli offerti dalla scena con estrema libertà. In questo modo ho ottenuto che fossero sempre autenticamente sorpresi e spiazzati.
A cura di Giulia Colella