Il giorno 10 febbraio 2017, in occasione del ciclo di incontri organizzato a Varese dal titolo Parliamo di violenza sulle donne: aspetti culturali e sociali, l’Università dell’Insubria ha ospitato la scrittrice Dacia Maraini. La redazione di Cinequanon ha colto l’occasione e incaricato Monica Cristini di porle alcune domande su un tema inedito: il suo rapporto con il cinema.
Cinequanon: Della sua carriera di scrittrice, di drammaturga, di poetessa si parla molto e si è sempre parlato molto. Della sua attività di sceneggiatrice, invece, sappiamo poco. Secondo Lei, perché?
Dacia Maraini: Non ho scritto molte sceneggiature, forse per questo, non so. Sinceramente, il teatro mi ha insegnato molto di più sulla scrittura. Il cinema, non c’è niente da fare, è fatto di immagini che prevalgono sulle parole. Mi sono sentita libera solo qualche volta scrivendo i dialoghi, per il resto la scrittura di una sceneggiatura è noiosa, perché bisogna sempre pensare ai tecnici a cui si rivolge, non certo a un lettore.
C: Spesso, nell’adattare per il cinema i Suoi romanzi, ha scelto di non lavorare da sola o addirittura, come nel caso dell’ultimo film, L’amore rubato, di affidare il lavoro a qualcun altro. Perché? Che tipo di lavoro comporta la rilettura di un romanzo per il cinema?
DM: Non amo scrivere sceneggiature. Comunque fa parte della tradizione scrivere collegialmente. Il lavoro si fa sempre in due, in tre, anche in cinque. Già questo fa capire quanto sia poco personale la scrittura per il cinema. La narrativa se la vede con l’assoluto del pensiero e della parola, la sceneggiatura lavora sul compromesso. Non è lo scrittore a scegliere e decidere il taglio da dare al film. E’ il regista che fa tutto e lo sceneggiatore deve solo assecondarlo.
C: In un’intervista ha affermato che la sua scelta di non prendere parte a molte delle sceneggiature dei suoi romanzi è dovuta al fatto che “uno scrittore si sente frustrato a cercare parole che poi diventeranno immagini”. La frustrazione sta nella secondarietà delle parole rispetto all’immagine, oppure nell’impossibilità di far corrispondere sempre perfettamente le immagini alle parole o c’è dell’altro?
DM: Non ho detto che la frustrazione viene dal cercare parole che poi diventeranno immagini. Ho detto che le parole hanno un loro corpo comunicativo che non è quello delle immagini. E che in un film sono le immagini che dominano e danno il tono alla storia, non le parole. Il film non è l’illustrazione di un romanzo, ma la sua libera interpretazione. Per forza è qualcos’altro: si tratta di un altro linguaggio. Il film va giudicato con criteri filmici, il romanzo con criteri narrativi e linguistici.
C: Pensa che i registi con cui ha collaborato abbiano fatto dei Suoi romanzi qualcosa di nuovo o siano rimasti fedeli alle Sue intenzioni? In che misura un regista può rimanere fedele al romanzo e alle intenzioni dello scrittore?
DM: C’è una fedeltà di fondo che può e deve rimanere nonostante i cambiamenti e le trasformazioni necessarie per passare da un linguaggio a un altro. Per esempio, Faenza è rimasto fedele al romanzo Marianna Ucria, nonostante i cambiamenti, mentre Voci l’ho considerato un film talmente lontano dal romanzo da arrivare a chiedermi perché abbiano voluto prendere a pretesto il mio libro.
C: Nel 1970, con L’amore coniugale, Lei è stata anche regista. Il soggetto era di Moravia. Come è stato “stare dall’altra parte”? Che tipo di lavoro ha fatto?
DM: E’ stata una idea del produttore Baldi. Io non ero convinta, ma poi mi sono lasciata tentare. Non mi sono mai sentita una regista, anche se il cinema mi piace come strumento di osservazione sulla realtà. Il guaio è che il produttore aveva pochissimi soldi e abbiamo fatto il film in sole due settimane, correndo sempre, risparmiando sulla pellicola, senza mai fermarci. C’erano un ottimo Thomas Milian e una bravissima Macha Merrill che fra l’altro era la moglie del produttore, che era molto geloso di lei. Ma è stato bello girare a Bagheria, dentro e fuori villa Valguarnera, che rimane una delle più belle ville settecentesche della Sicilia.
C: Chi è il regista con cui ha collaborato che sente più vicino, nel modo di girare, al Suo modo di scrivere?
DM: Mi sono trovata bene con Marco Ferreri per Storia di Piera. Mi sono trovata bene con Faenza, anche se ho collaborato solo per i dialoghi.
C: Per approfondire questo discorso: spesso le protagoniste dei suoi film sono donne, donne con personalità molto forti. Chi è stata per lei l’attrice che più è stata capace di rendere il Suo personaggio così come Lei l’aveva pensato?
DM: Mi è piaciuta Monica Vitti in Teresa la ladra, e poi la Laborit, vera sordomuta, in Marianna Ucria. Mi è piaciuta Hanna Shygulla nella parte della madre di Piera, e anche Isabelle Huppert nella parte di Piera.
C: Cambiamo discorso. Ho letto, nel piacevolissimo libro che Concita de Gregorio ha dedicato a Lei e alla sua vita (Non chiedermi quando. Romanzo per Dacia, Rizzoli, Milano 2016), della Sua collaborazione (anche faticosa) con Pasolini. Con lui ha lavorato come sceneggiatrice in senso stretto dando voce al personaggio della schiava Zimurrud. Com’è stato lavorare con Pasolini? E infine, meglio Pasolini come collega o come amico?
DM: Era la trilogia della vita. E Pier Paolo stava bene in mezzo agli attori, ai tecnici. Aveva ancora una visione incantata e ottimistica del futuro. Poi è arrivato il periodo della visione nera e dell’orrore per il mondo. L’esperienza di Zumurrud è stata molto bella anche se faticosa. Per quanto riguarda l’ultima domanda, posso solo dire che non si possono dividere le persone. Pier Paolo era un amico tenero e affettuoso. Sul lavoro era molto esigente, ma non smetteva di essere amico e affettuoso.
C: A proposito di amici e di cinema: parliamo invece di Visconti. Non ha mai pensato di collaborare con lui? Perché?
DM: Non me l’ha mai chiesto. Non è che io vado decidendo chi filmerà il mio prossimo libro. Di solito le cose accadono per caso e sono sempre i registi che si fanno avanti chiedendo di potere girare un film dal tuo libro.
C: Al di là della collaborazione professionale: le piace il cinema di Pasolini? e il cinema di Visconti? Dovendo scegliere, Pasolini o Visconti? Perché?
DM: Non mi piacciono i paragoni artistici. Sono due grandi autori e ciascuno ha il suo stile. Solo che Pasolini, oltre a essere un grande artista, era anche un carissimo amico con cui ho fatto tanti viaggi, Visconti lo conoscevo ma non così bene.
C: L’ultimo film tratto da un Suo romanzo, L’amore rubato, è uscito in sala pochi mesi fa: è la storia che aveva voluto raccontare? L’ha soddisfatta?
DM: I racconti sono stati molto manipolati. Ci sono state diverse versioni di sceneggiatura. Ma per fortuna non me ne sono occupata. Ho fiducia in Irish Braschi e l’ho lasciato fare.
C: Potremmo dire che L’amore rubato sia un film di denuncia. È d’accordo con questa affermazione? Più in generale, esiste, secondo Lei, un’arte di denuncia o le due cose si escludono?
DM: L’arte, se non è solo un prodotto commerciale, tocca sempre il fondo delle cose, dice delle verità sociali e quindi è sempre in qualche modo di denuncia, se vogliamo chiamarlo così.
C: Non solo sceneggiatrice, non solo regista, ma anche protagonista: a Lei e alla Sua vita è stato dedicato nel 2013 un film documentario, Io sono nata viaggiando. Che esperienza è stata? Com’è stato diventare, questa volta, soggetto del film?
DM: È stata una idea di Irish. Mi sembra che abbia fatto un ottimo lavoro. Io stavo partendo per l’Egitto, dove avevano appena pubblicato un mio libro in arabo. Ha detto “vengo con te e ti seguiamo”. Detto fatto. Appena arrivati però gli hanno subito sequestrato le macchine. C’era un’aria bellicosa. Ma lui ha preso in affitto delle macchine loro e abbiamo preso a girare. Nell’insieme è andata bene. Giravamo in un Cairo vuoto di turisti. Appena siamo partiti è esplosa la rabbia in città e hanno pure chiuso gli aeroporti. Per un pelo non siamo rimasti bloccati.
C: Le piacerebbe vedere un adattamento cinematografico anche del Suo ultimo romanzo, La bambina e il sognatore? Perché?
DM: Penso che La bambina e il sognatore sia un racconto che si presterebbe benissimo al cinema. Tratta di tematiche attuali, ha uno sviluppo narrativo che prende. Manca solo un regista di buona volontà.
C: Le piace andare al cinema? Lo fa ancora? L’ultimo film che ha visto?
DM: Certo che lo faccio ancora. Appena posso, vado. L’ultimo film che ho visto è stato La La Land. Veramente volevo vedere Moonlight ma non c’era nel cinema vicino a casa. Mi aspettavo una gran delusione. Invece l’ho trovato un film fatto bene, con una certa grazia e senza cedere troppo alle esigenze di un musical tradizionale.
C: L’ultimo film che Le è piaciuto?
DM: La pazza gioia. Soprattutto l’interpretazione originale, imprevedibile, intelligente, di Valeria Bruni Tedeschi. Un’attrice spigolosa, con una voce inesistente, eppure capace di colpire l’immaginazione in maniera magnetica.
C: L’ultimo film che non le è piaciuto?
DM: Non mi viene in mente. Quando sono brutti, li cancello dalla memoria.
C: Ha un film che considera “il film della sua vita”? Se sì, perché?
DM: Difficile parlare di un film della vita quando uno ne ha visti a migliaia. Ricordo con piacere qualche film giapponese dai tempi lunghi e la grande narrazione della natura: Rashomon, o Genji monogatari. Mi piace Lars Von Trier, il suo Dancer in the dark, magnifico. Mi piace il Rossellini di Germania anno zero, e Miracolo a Milano di De Sica. Potrei continuare a riempire la pagina di film che mi hanno fatto pensare e commuovere.
C: Che cosa ne pensa del cinema italiano di oggi?
DM: Penso che ci sia del buono. Quando non caschiamo nel giallo con coltelli e fiumi di sangue, rincorrendo gli orrendi serial americani tutti mostri, dettagli raccapriccianti ed effetti speciali. Quando si racconta con umiltà e ironia la vita del nostro paese.
a cura di Monica Cristini