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In ogni istante

I sogni dei futuri infermieri prima del Covid

Se non fosse stato presentato nel 2018 a Locarno, sorgerebbe il sospetto che la prima sequenza del film di Nicolas Philibert afferisca all’emergenza sanitaria in corso, con la macchina da presa che insiste su due mani insaponate, le indicazioni di un medico che suggerisce a un gruppo di aspiranti infermiere e infermieri come detergersi con il gel, la verifica successiva con uno scanner agli ultravioletti. La familiarità con le immagini delle buone pratiche replicate dai media fino allo sfinimento negli ultimi mesi crea un apparentamento di superficie che scivola via presto, quando il regista comincia a incrociare ordito e trama della sua narrazione: da una parte l’IFPS della Fondazione Œuvre de la Croix Saint-Simon situata appena fuori Parigi, a Montreuil, dall’altra i corsisti, che semestre dopo semestre, alternando lezioni teoriche a provanti stages, crescono professionalmente.

L’approccio di Philibert è come sempre rispettoso del mondo che incontra, contrario alle forzature; una regia paziente che scrive il film attraverso il fluire del tempo, quello legato a ciò che l’occhio registra, e quello delle attese che separano i capitoli della formazione professionale. Ancora una volta nessuna voce narrante governa il racconto, lasciando alle immagini e ai dialoghi tra formatori e aspiranti, il compito di costruire il documentario. Unica concessione, tre titoli enigmatici che aprono i tre atti in cui è diviso il film documentario: “1. Cosa cogliere se non ciò che sfugge?”, “2. Cosa vedere se non ciò che oscura?”, “3. Cosa desiderare se non ciò che muore, se non ciò che parla e si lacera?”.

Come i precedenti Nel paese dei sordi Essere e avere, In ogni istante guarda con curiosità alle dinamiche che si innescano in ambienti educativi, ai percorsi di crescita individuali, tra gioie e difficoltà, successi e piccoli fallimenti. Il regista dosa informazioni e emozioni con la solita sapienza, colorando via via il suo disegno senza colpi a sorpresa. A differenza, ad esempio, di ciò che accadeva in Essere e avere, dove gli accidenti della vita avevano portato davanti alla macchina da presa la tragedia personale di un bambino e della sua famiglia, qui non c’è climax, piuttosto un puzzle di sguardi e voci, di corpi in azione su manichini prima e pazienti dopo, alla ricerca di un linguaggio non verbale che sia un delicato alternarsi di gesti decisi e delicati al tempo stesso. E proprio perché ogni linguaggio porta con sé una cultura, la reiterazione di movimenti che cercano una meccanica precisa (bellissima tutta la sequenza che vede gli aspiranti alle prese con una siringa), la goffaggine che si trasforma lentamente in grazia, passando dalle fasi di apprendimento errore-correzione-rimodulazione, definiscono il luogo in cui quel linguaggio fa da collante: la scuola e i dipartimenti in cui i giovani allievi si misurano in sessioni di pratica faticosi anche psicologicamente. Philibert non ha bisogno di sovrascrivere le immagini per sviscerare il linguaggio della cura, che ha sì bisogno di propensione, di vocazione, ma anche di struttura psicologica, di rigore professionale, di competenze specifiche.

Gli allievi vengono sorpresi dal regista – e Philibert è un maestro in questo (più di Wiseman) – proprio nei momenti di maggiore fragilità, nei tentennamenti, nel tremolio che li coglie quando la teoria chiama la pratica, e infine nei colloqui con i tutor. Da comparse diventano protagonisti e il documentario decolla, nonostante non tradisca la struttura piana del racconto. Ogni sguardo si fa universale e ogni breve dialogo porta piccoli universi, umanità periferiche, che tra ostacoli di diverso genere desiderano migliorarsi per fare ciò che sognano: un mestiere irto di difficoltà, spesso mal pagato, esposto a rischi (e ne abbiamo avuta la riprova ultimamente nei nostri ospedali), ma che promuove la presa in carico come valore.
Proprio la presa in carico è il sottofondo del film, anche quando i dubbi assalgono gli allievi, quando nella seconda parte del film, e soprattutto nella terza, sono messi di fronte alla patologia, ai turbamenti causati dalla malattia, alla consapevolezza che la presa in carico è anche dolore. Allora a dominare sono le reazioni di questi giovani di fronte alle esperienze lancinanti della vita, nonostante alcuni di loro vengano da contesti disagiati.

Philibert, tra i tanti istituti di formazione, ne sceglie uno innestato in una zona multiculturale, così che ragazzi e ragazze hanno colori della pelle e lineamenti che rinviano a contesti diversi. Non c’è mai nel film un discorso sull’integrazione, sull’accoglienza, sul dialogo interetnico, perché il problema non sembra sussistere, azzerato dagli sguardi – quello del regista e quelli di insegnanti e aspiranti – che cercano virtù in ogni individuo, indipendentemente dalla provenienza, dal ceto o dalla confessione religiosa. E nemmeno si ha la sensazione che gli allievi siano motivati dal desiderio di uscire dalla zona scura delle cosiddette minoranze sociali; al contrario emerge a tratti una propensione verso l’altro maturata proprio dall’esperienza di vita in contesti difficili.

In ogni istante replica la formula del precedente La maison de la radio, nella volontà di scandagliare un luogo e chi lo abita (qui un presidio sanitario, lì la sede di Radio France), ma ancora di più che nel film precedente Philibert promuove il valore umano quale differenziale nel cuore di un organismo complicato che respira grazie a sinergie di squadra. Rinunciando a sortite fuori porta, affacciandosi di tanto in tanto da una finestra per rubare un cielo, un paesaggio di tetti, il mondo entra nel racconto con i misteriosi ingranaggi che lo fanno girare, attraverso gli individui, i loro comportamenti, il loro carico di emozioni.
Il cinema di Philibert è un tentativo dichiarato di “cogliere ciò che sfugge”, “vedere ciò che oscura”, “desiderare ciò che muore”. La vita?

Alessandro Leone

In ogni istante

Regia, fotografia, montaggio: Nicolas Philibert. Origine: Francia, 2018. Durata: 105′.

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