Il cinema ha senz’altro ricollocato l’uomo sul piedistallo della visibilità. Mentre le avanguardie primonovecentesche ne deturpavano l’immagine, riducendola a un guazzabuglio di linee spezzate e ghirigori fanciulleschi, la settima arte tornava prepotentemente alla fisicità dei corpi e al rigore del racconto. Loro malgrado, le immagini si sono trasformate in un potente meccanismo di narrazione storica in grado di direzionare le forme dell’immaginario collettivo. Ricordiamo tutti la celebre battuta di Woody Allen secondo cui il cinema è un riflesso della vita e la vita non è che un riflesso della televisione. Oggi potremmo dire che la storia è figlia delle immagini e le immagini sono a loro volta conseguenze del tempo che le produce. Difficilmente questa intima connessione tra realtà, riproduzione e interpretazione della stessa ha avuto un così complicato equilibrio come nel caso della Shoah. Forse il motivo principale risiede nella duplice natura di questa tragedia tipicamente novecentesca, ovvero la necessità di ricostruzione documentaria e l’urgenza di una narrazione che sia al contempo riflessione inscenata dei fatti e disinnesco catartico dell’orrore. Con tutte le contraddizioni metodologiche che questa impalcatura presuppone. Anzi, la questione di fondo sta proprio nella raffigurazione degli orrori dello sterminio nazista: non solo si tratta di un assoluto visivo e concettuale, una sorta di irrappresentabile etico ed estetico che finirebbe, una volta simulato, per traviarsi in mera spettacolarizzazione; ma soprattutto perché la riproduzione dell’Olocausto rischierebbe, come di fatto è successo, di svuotare il significato più profondo del dramma per mantenerne l’involucro celebrativo.
Il Giorno della Memoria è una festività laica relativamente giovane, visto e considerato che è stata istituita soltanto nel 2005 da una risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, e la domanda a cui rispondere è: perché con esattezza si officia questo rito di stato? Celebriamo la memoria dell’Olocausto o uno specifico giorno dedicato alla memoria? In altre parole, a cosa puntiamo: al significato o al significante? Nel caso dell’esperienza cinematografica, la quantità di titoli dedicata all’argomento, e pensati essenzialmente per alimentare un ricco mercato editoriale e televisivo, conduce piuttosto dalle parti della seconda soluzione: il puro significante, l’argilloso contenitore dell’esperienza mnemonica che si trasmuta in didascalismo da scuola superiore. Eppure, a ben guardare, la storia della storia della Shoah procede di pari passo con le medesime incoerenze della cinematografia; nel corso della sua rocambolesca evoluzione, il cinema ha spesso riflettuto, e quasi sempre inconsapevolmente, sull’innalzamento progressivo del limite rappresentabile. Pertanto non dobbiamo stupirci del fatto che anche i registi chiamati a indagare l’Olocausto si siano trovati ad affrontare argomenti di deontologia in modo non dissimile dai propri colleghi di più “profana” vocazione.
Un regista che ha risolto felicemente questo dissidio è senz’altro Laszlo Nemes, virgulto del recente cinema ungherese, che con Il figlio di Saul (2015) intreccia sapientemente la tragedia del singolo individuo al dramma della memoria collettiva. Il suo protagonista è Saul, un prigioniero ebreo membro del Sonderkommando, cioè la squadra di internati a cui era affidato il compito di bruciare i cadaveri estratti dai forni crematori di Auschwitz. Un giorno l’uomo trafuga il corpo di un ragazzino e decide di adottarlo come se fosse davvero figlio suo. La vittima non ha nome, identità, parenti. Nel buio del lager, Saul ha finalmente un compito: trovare un rabbino che dia sepoltura a questo figlio putativo rendendolo degno del compianto negato. Questo film costruisce la propria essenza non solo sul tema del cordoglio e sulla preservazione della memoria, ma anche e soprattutto sulla necessità della sua rappresentazione. Non a caso le peregrinazioni di Saul nei budelli di Auschwitz sono la scusa per raccontare, pur romanzandolo nei suoi dettagli di superficie, un episodio decisivo nella storia della documentazione, cioè la genesi delle quattro fotografie scattate clandestinamente nell’agosto del 1944 da alcuni internati della resistenza polacca: un gruppo di prigionieri, approfittando di rischiosissimi contatti con l’amministrazione del campo, introdusse un apparecchio fotografico con cui immortalare i roghi dei cadaveri che i forni crematori non riuscivano a smaltire. Era la prova provata, assolutamente necessaria, perché il mondo fuori dal lager potesse rendersi conto e metabolizzare l’orrore che fino ad allora era trapelato soltanto sotto forma di diceria, di percezione astratta del tutto priva di una referenza iconografica.
Il tema specifico della Shoah altro non è che il tema essenziale del cinema in generale: qual è il limite della rappresentazione? E quando la rappresentazione abbandona l’esigenza documentaria per farsi pornografia dello sguardo, tensione all’eccesso, raffigurazione compiaciuta della mattanza? Se lo chiede anche George Didi-Huberman nel suo saggio più noto, Immagini malgrado tutto (2003) proprio a partire da una meditazione filosofica sul bisogno e sul valore della necessità delle fotografie. È davvero indispensabile dimostrare l’esistenza di un fatto che dovrebbe sussistere a prescindere, come un a priori della nostra coscienza critica? Evidentemente, e con un certo gusto per il paradosso, lo è: delle circa due milioni di immagini fotografiche sull’Olocausto, scattate tra il 1933 e il 1945, soltanto quattro di esse, le quattro raccontate nel film ungherese, documentano in modo preciso e inequivocabile il procedimento di annientamento messo in moto dal regime hitleriano. Queste quattro fotografie rappresentano ancora oggi documenti unici ed eccezionali perché nella loro immediatezza, cioè nell’essere scatti non mediati da nessun processo di rielaborazione critica, finiscono per coincidere con il grado zero della fotografia. In altre parole, siamo di fronte a immagini scattate dal buco della serratura della storia: tecnicamente grossolane, sembrano quasi scimmiottare i fotogrammi di qualche operazione di avanguardia cinematografica. Nelle prime due foto scorgiamo una porta spalancata da cui si intravede una pira di cadaveri alimentata da membri del Sonderkommando. Nelle ultime due, alberi inquadrati di sguincio, frettolosamente, sottoesporti e fuori fuoco. Una di queste, nell’angolo, ritrae un gruppetto di moriture denudate e inviate alla camera a gas. L’aspetto curioso è che nel film di Laszlo Nemes non trovano mai spazio gli scatti propriamente detti, ma soltanto il contesto ricostruito e parzialmente immaginato della loro produzione. I protagonisti del film inscenano quindi la creazione dell’atto documentaristico, non il relativo risultato che invece è stato ormai consegnato al tribunale della storia. Lo spettatore assiste alla ricreazione degli eventi, o almeno di una loro possibilità pur al netto di tutte le forzature epistemologiche attribuibili a un film di fiction.
Di questo il bravo regista è senz’altro consapevole, e infatti, proprio ragionando sul limite del rappresentabile, procede con piani sequenza di alto virtuosismo tecnico, lasciando la macchina da presa incollata quasi tutto il tempo sul volto e la nuca del suo protagonista, relegando e delegando la storia allo sfondo, e appunto sfocando il superfluo o il pornografico: i cadaveri, gassati e denudati nelle docce del campo, sono sempre fuori fuoco. Sempre. È la stessa strategia che abbiamo visto in un notevole documentario sulla memoria e la custodia dell’identità, Che fare quando il mondo è in fiamme? (2018) di Luca Minervini: il regista italiano, anche se americano di metodologia e formazione, segue le vicende di una comunità nera di New Orleans per analizzare la questione razziale di un paese che non è ancora sceso a patti con il proprio passato schiavista. Quando inquadra i bianchi, Minervini li lascia fuori fuoco, a latere degli eventi, come delle onde di rifrazione capaci sì di influenzare la storia collettiva ma tutto sommato inopportune da raffigurare.
Le contaminazioni tra storia e rappresentazione della storia sono state spesso alla base di fecondi, per quanto discutibili, cortocircuiti semantici. Uno dei più interessanti e meno conosciuti è senz’altro dato dal film L’ultima tappa (1948) della regista polacca Wanda Jakubowska. Lei, sopravvissuta agli orrori di Auschwitz, ricostruisce un dramma che ancora oggi resta forse un unicum nella documentazione cinematografica dedicata alla Shoah: non soltanto gira buona parte del suo film nei luoghi del martirio, ma scrittura tra le comparse molti degli internati del lager, come lei scampati alla morte e come lei desiderosi di capire la propria tragedia inscenandone la rappresentazione cinematografica. Sono passati appena tre anni dalla liberazione di Auschwitz, e già il cinema ricorda il sacrificio delle sue vittime attraverso una messa in scena che si fa insieme omaggio e memoriale. Un discorso molto diverso è invece quello da riservarsi a Kapò (1960): un film piuttosto noto di Gillo Pontecorvo, regista italiano esponente del cinema di impegno civile che, diversamente dalla collega polacca, non è tanto interessato ad investigare i propri tormenti personali ma a ricostruire e spettacolarizzare un momento storico. Sia L’ultima tappa sia Kapò, realizzati e distribuiti a dodici anni di distanza l’uno dall’altro, rappresentano inconsapevolmente film della maturità: benché appartenenti a epoche anagrafiche un po’ diverse (la Jakubowska era nata del 1907, Pontecorvo nel 1919), questi due registi filmano le loro pellicole più famose alla stessa età: quarantuno anni. Ci troviamo di fronte a un’età importante, a pellicole ragionate, ma a congiunture storiche radicalmente mutate a cui corrispondono esigenze di rievocazione abbastanza divergenti. Nel giugno del 1961, un giovane Jacques Rivette pubblica sui Cahiers du cinéma la sua altrettanto nota stroncatura del film di Pontecorvo: cagione di tanto accanimento è in realtà una scena in cui l’attrice Emanuelle Riva, nella parte di una detenuta di Auschwitz, si suicida scagliandosi contro una rete elettrificata. Il problema di quella scena, eminentemente di ordine morale, è dato dal compiacimento con cui Pontecorvo iscrive con grande maestria il corpo della sua attrice, e in particolare la mano protesa in un gratuito ed eccessivo gesto di pathos, nell’inquadratura cinematografica. Una carrellata precisa, un momento formalmente ineccepibile, una visione d’insieme che, per citare lo stesso Rivette, rendono il regista meritevole del massimo disprezzo. Visto oggi, Kapò non resta che un buon melodramma sull’Olocausto, una storia struggente in biblico tra rievocazione storica e compiacimento estetizzante: Emanuelle Riva corre, colpisce la rete, il suo corpo è dilaniato dalle scosse, il coinvolgimento emotivo dello spettatore è massimo e totalizzante soprattutto grazie a quella mano che si leva in una virtuosa esibizione di teatralità e alla carrellata “immorale” che ne immortala la tragica fine.
Questa pornografia dello sguardo, che inscena l’osceno, cioè che rende la storia una manifestazione di forma più che di sostanza, sarà alla base di una lunga e terrificante catena di opere sull’argomento, una fra le tante La vita è bella (1997) di Roberto Benigni. L’abitudine ci ha reso assai refrattari a tali forme di condizionamento iconoclasta, tanto che non esiste ormai film o prodotto televisivo che ponga in essere la questione della moralità della raffigurazione; al contrario tutto il nostro immaginario abbevera le proprie radici in un serbatoio visivo di immagini estreme, elaborate ed esplicitate dal gusto corrente. Il lavoro di Pontecorvo costituisce così un involontario spartiacque, perché da un lato manipola l’illustrazione della morte e i suoi abituali criteri di riproduzione cinematografica; dall’altro sposta e innalza il limite di accettazione dell’indicibile e, di fatto, comincia a parlare il linguaggio della contemporaneità. L’ultima tappa era l’elegia di un’epoca e del suo strascico di orrori, il tentativo di scongiurare e ridimensionare il dolore, di addomesticarlo riponendolo in essere attraverso la sua mediazione; Kapò apre le porte al moderno, ricorre a scelte formali di pregio per abbattere i tabù della storia e codificarli in una nuova e dibattuta sintassi.
È d’altronde lo stesso dilemma su cui concentra l’attenzione Claude Lanzmann, regista del documentario di oltre dieci ore Shoah (1985), che pur con meno veemenza di Rivette si scaglia su Schindler’s List (1993) adducendo di fatto le medesime motivazioni: può un film di fiction raffigurare l’orrore delle camere a gas? È morale che lo faccia? È singolare pensare che mentre critica e pubblico incensavano l’opera forse più conosciuta di Steven Spielberg, proprio i registi, o almeno alcuni di loro, ne prendevano le dovute distanze: Jean-Luc Godard, Stanley Kubrick e Michael Haneke sono alcuni dei nomi più celebri che ne denunciano i meccanismi spettacolari. Sia Kubrick sia Lanzmann fanno notare che non stiamo parlando di un film sull’Olocausto ma di un’opera che, concentrandosi più sulla speranza che sulla morte, finisce per raccontare la Shoah dal punto di vista dei sopravvissuti. L’orrore viene per così dire edulcorato, commercializzato, ridotto alla portata di un pubblico che preferisce piangere anziché riflettere. Haneke si concentra piuttosto sull’ambiguità della scena delle docce, quella in cui lo spettatore non sa, fino all’ultimo, se dai bocchettoni uscirà l’acqua o il gas assassino.
Questa costruzione del racconto basata essenzialmente sulla suspense si addice al pubblico americano, non certo a quello tedesco, o comunque europeo, su cui ancora grava il comune senso di colpa. Non dobbiamo però stupirci di una tale divergenza di sensibilità; l’idea di cinema e di Olocausto postulata dal regista tedesco trova perfetto compimento forse nel suo film più premiato, Il nastro bianco (2009), ovvero un film sul nazismo che non parla mai esplicitamente di nazismo: con stile entomologico, Haneke segue le vicende di una comunità rurale tedesca di inizio secolo. Siamo a ridosso della Grande Guerra, e in un piccolo villaggio di contadini cominciano ad accadere fatti disdicevoli e strani. Incidenti sospetti, improvvisi scoppi di violenza, rivalità sottili altro non sono che i funebri segnali di un’epoca che cambia e che è deputata agli orrori della guerra prima, alla follia delle persecuzioni razziali poi. Il titolo si riferisce a una delle scene più crudeli, quella in cui il pastore luterano della cittadina appunta una fascetta bianca al braccio del figlio. Il bianco è segno di purezza, e tali, puri e immacolati, devono restare i bambini che si approcciano alle soglie dell’adolescenza, prima che il male del mondo adulto si impadronisca di loro per traviarli e spingerli al peccato (chiaro riferimento alla sessualità). Il finale è l’essenza di questa visione metafisica della Germania e del comune ma ineluttabile sentimento tedesco: una sola inquadratura frontale abbraccia l’intera cittadinanza riunita in chiesa per celebrare la funzione domenicale. Ci sono tutti i sistemi di potere, in questo sacro momento di spiritualità: l’aristocrazia sonnolenta e campagnola, il mondo contadino scosso dai primi fremiti rivoluzionari, la borghesia e la Chiesa. Contadini, sovversivi, intellettuali, bambini e ragazzetti tutti educatamente riuniti sulle panche, che guardano verso di noi, verso lo spettatore, interrogandolo e interrogandoci sulla ciclicità della storia e dei suoi orrori. In tale quadro di insieme, Haneke ci spiega la natura ultima e impalpabile del nazismo: una fatalità storica già scritta e iscritta nel futuro, assolutamente inevitabile, della Germania. Contravvenendo alle sue stesse abitudini cinematografiche che prevedono stacchi di montaggio improvvisi, accompagnati sovente da lunghi secondi di schermo nero, Haneke chiude il film con una dissolvenza lenta e fumogena: l’accorata elegia di un’epoca al tramonto su cui presto calerà il sipario della barbarie nazista. Quei bambini che indossano il nastro bianco saranno gli stessi che, divenuti adulti, appunteranno una stella gialla sulle braccia di altri bambini.
L’esigenza del regista tedesco non ubbidisce al principio documentario, cioè l’attestazione dei fenomeni storici attraverso l’analisi delle circostanze che ne sono state alla base; il suo film procede infatti per sottrazione, lavora sugli antefatti, sfrutta i silenzi e le ellissi dell’analisi storiografica. Concettualmente è il medesimo approccio di Germania in autunno (1978) di Rainer Werner Fassbinder e altri importanti registi della scena cinematografica tedesca del secondo dopoguerra: la storia lascia il posto alla sociologia, e la sociologia riflette sulle tendenze strutturali della popolazione e sul modo in cui queste tensioni finiscano per determinare il sentimento collettivo a decenni di distanza dalla Shoah. Il film sembra concentrarsi sul modo in cui le colpe dei padri hanno plasmato il presente, e soprattutto sulle cicatrici inflitte alle generazioni successive: lo stesso Fassbinder, nello spezzone di cui è regista, si mette a nudo, letteralmente, finendo lui stesso per rivelarsi simbolo di una generazione turbata e priva di riferimenti esistenziali; Haneke esorcizza questo spaesamento usando strumenti diametralmente opposti, cioè viaggiando à rebours nella coscienza tedesca per comprendere (ma non assolvere) le motivazioni più nascoste e profonde che scatenarono la follia dei padri. L’approccio di Haneke è per così dire neorealista, perché racconta la realtà attraverso lo sguardo dell’infante proprio come facevano De Sica e Zavattini: la differenza sostanziale è che gli occhi dei bambini, nel cinema neorealista, sono sempre innocenti; ne Il nastro bianco sono storicamente e irreparabilmente colpevoli.
È certo l’esatto contrario dell’impalcatura logica su cui si regge il processo Eichmann, a cui Hannah Arendt dedica il suo celebre saggio La banalità del male (1963). La vicenda di Eichmann è di per sé degna delle avventurose trovate di un film spionistico: fuggito in Argentina, il criminale vive indisturbato sotto falso nome fino al 1960, quando il Mossad lo rapisce per portarlo in Israele, sottoporlo al più grande processo mediatico della storia e condannarlo a morte nel 1962. La filosofa tenta sì di scandagliare le ragioni umane e antropologiche che hanno impedito al boia di rielaborare criticamente le scelte da lui intraprese, e in questo ha la stessa delicata acutezza di un Laszlo Nemes o di un Michael Haneke; ma la registrazione e la trasmissione del processo, ripetiamo: uno dei più importanti eventi mediatici del ventesimo secolo, sono situazioni che invece appiattiscono, e appunto banalizzano, qualsiasi velleità di indagine e approfondimento. Lo scopo del processo Eichmann non è comprendere il male per giungere a una plausibilità di spiegazione o razionalizzazione, ma spettacolarizzare la vicenda di un singolo individuo per trasformarla in processo alla Storia stessa e risarcimento alla memoria di un intero popolo. Un risarcimento forzato, obbligatorio, prepotentemente desiderato e invocato che abiura ogni principio di imparzialità (l’esito del dibattito era scontato, già stabilito nella sua esigenza di farsi esibizione e memoriale). Anche in questo caso la coincidenza di date non è affatto casuale: l’udienza a Eichmann comincia nel 1961, Kapò di Gillo Pontecorvo viene distribuito nel 1960. Il regista italiano ha inaugurato un progressivo processo di spettacolarizzazione dell’estetica cinematografica, l’apparato mediatico che porta alla condanna del gerarca nazista inizia un tortuoso percorso di spettacolarizzazione delle colpe individuali attraverso la gogna del procedimento televisivo. E come in un gioco ad incastri, la settima arte si sente in dovere di raccontare l’ineluttabilità di tale tendenza nel film The Eichmann Show (2015) di Paul Andrew Williams: un esempio di metalinguaggio cinematografico che riflette la mediatizzazione della storia facendosi essa stessa evento mediatico.
C’è però anche un altro modo di raccontare l’Olocausto e le sue conseguenze, forse meno indagato nel cinema ma nondimeno capace di regalarci film memorabili. E questo procedimento lega forse senza troppa consapevolezza alcuni film programmaticamente assimilabili, tutti realizzati a un decennio di distanza l’uno dall’altro, ma che puntualmente offrono una lucidissima analisi della Shoah e delle conseguenze che ha lasciato sul tessuto civile. Il primo è senz’altro Il portiere di notte (1974) di Liliana Cavani, una pellicola inquietante sul torbido legame sadomasochistico tra una sopravvissuta di Auschwitz e il suo aguzzino, che nel dopoguerra lavora sotto mentite spoglie come portiere di un albergo viennese; Tras el cristal (1987) di Agustì Villaronga è invece incentrato sulla figura di un medico nazista, chiaramente ispirato a Joseph Mengele, che durante la guerra approfittava della sua professione per abusare e uccidere bambini ebrei; dopo il conflitto, l’uomo si rifugia nella Spagna franchista dove il senso di colpa lo spingerà a un tentativo malriuscito di suicidio. Paralizzato completamente in un ingombrante polmone di acciaio (da qui il titolo della pellicola), il boia pentito vivrà in balìa del suo badante: un ragazzo di cui il medico aveva abusato durante la detenzione in un lager che ora, in un terrificante scambio di ruolo tra vittima e carnefice, inscenerà su altri bambini gli stessi crimini di cui era stato martire. L’allievo (1998) di Bryan Singer (regista ebreo-americano che trae il film da un racconto di Stephen King del 1984) segue un canovaccio abbastanza simile: qui uno studente americano scova un criminale nazista che vive in un sobborgo residenziale sotto falso nome. In cambio del suo silenzio, il ricercato dovrà assumere il ruolo del “maestro”, raccontando dettagliatamente le violenze che comminava agli inermi detenuti del campo di concentramento di cui era il carceriere. La violenza e gli orrori della Shoah, che in principio rivivono nelle parole dell’assassino, non soltanto incrinano in breve l’equilibrio mentale dell’allievo, ma risvegliano anche la sete di sangue dell’insospettabile mentore che torna a compiere brutali omicidi. I tre film citati coniugano le perversioni della storia con quelle della psicanalisi, trasformando l’una nello specchio distorto dell’altra e instaurando tra i due campi un innovativo rapporto di causa-effetto capace di oltrepassare la mera messa in scena del racconto storico. Sia Il portiere di notte sia Tras el cristal sono debitori di un estetismo voluto e pianificato, che senz’altro pone il suo riconoscimento intellettuale nella scena tanto vituperata di Kapò. L’allievo si situa nel solco già ben collaudato del thriller debitore della letteratura americana, ma in tutti i casi abbiamo un trasferimento di ruolo nella narrazione della Shoah: da protagonisti degli orrori, vittime e carnefici si trasformano in spettatori di un male tutto inscenato, ovvero di una modalità discorsiva che utilizza le geometrie dello spazio personale per farsi metafora di una condizione storica e generazionale. Da orrore collettivo, la storia si fa spettacolo privato.
Marco Marchetti
Bibliografia essenziale ragionata:
Per una riflessione filosofica sul valore morale e documentario delle quattro immagini scattate clandestinamente ad Auschwitz nell’agosto del 1944 si rimanda al testo di Didi-Huberman George, Immagini malgrado tutto, Cortina, Milano 2005; per una storia per immagini dell’Olocausto consigliamo Gutman Israel, Gutterman Bella, Pezzetti Marcello (a cura di), Album Auschwitz, Einaudi, Torino 2008; nonché i contributi storici in Maida Bruno, Auschwitz e la shoah : storia per immagini dell’olocausto : 1933-1945, Torino, Edizioni del Capricorno 2015. Se invece si fosse interessati a indagare il ruolo della memoria nella rielaborazione della Shoah, e soprattutto il rapporto tra il valore della celebrazione storica e la costruzione di una coscienza critica nazionale, si consigliano i seguenti contributi: Flores Marcello, La Shoah, la memoria tedesca, la coscienza collettiva in Cattiva memoria, il Mulino, Bologna 2020, pp. 29-38; Loewenthal Elena, Contro il giorno della memoria : una riflessione sul rito del ricordo, la retorica della commemorazione, la condivisione del passato, Add Editore, Torino 2014. Per un’analisi della coscienza critica tedesca e del ruolo che essa ha avuto nel sostegno del nazionalsocialismo, rimandiamo invece a Goldhagen Daniel Jonah, I volenterosi carnefici di Hitler, Mondadori, Milano 1998; Arendt Hannah, La banalità del male. Eichman a Gerusalemme, Milano, Feltrinelli 2019, nonché Mosse George, La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), Il Mulino, Bologna 1975; infine segnaliamo un interessantissimo testo sul ruolo del negazionismo nella deresponsabilizzazione della colpa collettiva: Vercelli Claudio, Il negazionismo: storia di una menzogna, Bari, Laterza 2013.