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Il viaggio nella lontananza: Takeshi Kitano

Una grande ondata di caldo. Spesso arriva così la marea di sensazioni che i film di Takeshi Kitano generano in noi. Quando usciamo dalla sala non sempre ci sentiamo di dire qualcosa; aggiungere non è appropriato, forse, levare si. A volte capita che vorremmo tornare dentro e subito rivedere, cercare, cogliere di più. È una sensazione che ci accompagna solo con determinati autori, è un tendere verso qualcosa o anche un “fuggire da” che non riusciamo a spiegarci. Al cinema dove tutto è costruzione, noi spettatori decliniamo da soli le nostre sensazioni in emozioni, noia, disgusto, meraviglia e spaesamento.

Nei film di Kitano tutto è trasversale, ogni cosa che proviamo viene accelerata e rallentata spingendoci, spesso frastornati, a camminare sull’esile filo sogno/realtà.

In Kids return, A scene at the sea, Sonatine, Hana Bi, e Dolls lo scorrere dei fotogrammi ci fa assaporare i paesaggi in modo molto simile a quando in auto siamo lanciati a forte velocità e ci accorgiamo di come il panorama lontano, nonostante la rapidità del nostro spostarci, sia veramente bello. Ci viene da rallentare ed espirare lentamente e, in quel momento, il tempo pare si fermi.

Strano connubio in questo modo di fare cinema: il fuoco caotico delle rappresentazioni brutali insieme con l’abbandono incorporeo dei movimenti, il freddo dei sontuosi silenzi. Non è facile abituarsi al flusso delle inquadrature quando transitano dalle scene forti e violente di azione al lento spiegarsi della visione delle placide onde del mare di Okinawa, là nel sud del Giappone.

Concepire e rappresentare l’incontro del sangue con l’acqua del mare richiede spirito poetico, azzardo e una buona dose di malinconica ironia.

È il cinema della lontananza; non solo perché l’oriente per noi è l’al di là culturale, antropologico, semiologico, ma poiché i film del regista giapponese come quelli di pochi altri artisti, ci donano la possibilità del ricordo. C’è un legame segreto tra la ricerca dell’identità e la memoria del nostro passato.

Kitano esplicita come nelle dinamica esistenziale di ognuno le esperienze di vita assumano forme e tempi diversi. Nelle sue opere ci rivela come spesso il tempo della nostra vita possa svolgersi lungo la linea dell’immaginario confine tra la realtà forte, impetuosa del sangue o scivolare lungo la deriva del sogno, ineffabile, costituita di pace, biancore e silenzio. L’esistenza quindi senza vanità, attraversata da momenti che a volte si iscrivono nella nostra più cara memoria ed altre s’insediano bruscamente come tasselli nella nostra identità.

Le riflessioni che i film del cineasta generano si allargano su tutti i campi della vita e della morte. Una morte che, nelle opere di Kitano, non è mai il fondamento della vita, segnala un semplice ed ineluttabile avvenimento a sé, apparendo remota da ogni possibilità di redenzione per il male commesso. È un pugno nello stomaco che noi occidentali non siamo in grado di incassare facilmente. Gli antieroi dei lungometraggi di Kitano muoiono di una morte fulminea, spesso banale, senza lasciare vuoti: nessuno li piangerà poiché essi non piangono mai per nessuno. È il trionfo del non-sentimento tragico e religioso della vita.

Il nostro cinema per sua natura disapprova i cattivi senza Dio. È cosa normale che, tra i malvagi rappresentati nelle pellicole occidentali, alcuni in punto di morte desiderino il perdono, gradiscano il conforto o la consolazione di qualcuno.

Kitano non ci permette di pensare che questo possa avvenire con i suoi feroci personaggi. Non ci da mai indicazioni o messaggi, lascia noi spettatori a riflettere da soli nei momenti di silenzio che attraversano numerosi momenti dei suoi film.

Terra di confine questo modo di fare cinema, lontano dalla fede, dall’interrogazione, dai dubbi. Molti dei personaggi, questi temibili yakuza, muoiono, tutto qua. Senza divenire simbolo, pretesto di vendette, senza avere pretese di redenzione. Abbiamo visioni differenti da queste parti di pianeta. Lo splendido, mai capito fino in fondo, Cattivo Tenente (1993) di Abel Ferrara ha, nei confronti del personaggio di Violent Cop (1989), di Kitano, una tragicità esistenziale biblica. Ferrara rappresenta una memorabile, struggente icona di un poliziotto corrotto (H. Keitel) che muore, ma prima si redime in modo straziante e tenero come fanno i bambini: pentendosi di essere stato “cattivo”.

Kitano finora non ha mai rappresentato nessuna forma di religiosità: le sue visioni, i suoi personaggi esistono sempre in sospeso da ogni giudizio etico e politico. Il cinema come altre arti è un’eterna fonte di stupore e spaesamento. Per noi però la vita e la morte, l’amore, la giustizia, la politica devono avere un senso, una identità. E se non c’è l’hanno ne costruiamo o tentiamo di farlo ricorrendo alla memoria.

Oggi nella nostra società più che in quella giapponese, viviamo una identità complessa, composita. Un meticciato nel quale il dramma o la commedia sta nelle scelte che quotidianamente dobbiamo compiere e poiché nessuno può scegliere al nostro posto, noi diveniamo artefici della nostra tragedia o commedia.

Negli ultimi film di Kitano si coglie ampiamente il senso di questo passaggio esistenziale: gli yakuza sono votati alla morte perché scegliere di diventare gangster è scegliere di uccidere o venire uccisi; il resto della vita è sopravvivenza. I momenti veri ed intensi di vita per uno yakuza la cui identità ha le sembianze della morte divengono allora i ricordi, l’innocenza dei giochi della fanciullezza, magari in riva ad una spiaggia.

Il cinema è un prodotto, non è la vita. La sua grandiosità risiede nel fatto che ci richiama costantemente al senso del presente, alle coincidenze, agli avvenimenti che, determinanti o banali, regolano la nostra esistenza. Al di là delle questioni legate al linguaggio quello che più ci lega al cinema del regista di Tokio sono le numerose possibilità di cogliere la vita e quindi noi, la nostra storia in ulteriori modi, anche contrastanti: tragico-comici. Kitano d’altronde è l’inventore di se stesso, beffardo comico, prestigioso autore, pittore, fotografo, attore e cineasta, chi più di lui possiede l’affascinante compito di rappresentare la vita. Egli al contrario dei filosofi non ce la spiega, ci testimonia alcuni degli aspetti che la compongono: la violenza, la follia, le sofferenze e le loro consolazioni.

Il cineasta giapponese riesce a far breccia nei nostri cuori sferzandoci con le violenze e le contraddizioni dell’esistere, con gli inciampi di chi, consapevole di sbagliare, solo nel ricordo ritrova l’innocenza che aveva perduta per vivere nelle cose del mondo. Non vi sono addolcimenti, il sangue è sangue; non vi sono struggimenti solo momenti di malinconia che affiorano dal silenzio interiore.

I suoi film sono ricoperti da una strana opacità nei significanti che non ci permette un giudizio, neppure quando il tema portante è unico: l’amore. (Dolls, 2002).

In Dolls l’amore è dimenticato, lasciato su una panchina, dannato, demitizzato, ma sempre e comunque vera espressione di vita, misterioso ponte tra una promessa fatta ieri e un tradimento compiuto oggi.

Dagli sguardi di Kitano, grazie anche alla bella fotografia, ne usciamo stupefatti, colpiti, poiché narrare la vita in questo modo così delicato (A scene at the sea, 1992, L‘estate di Kikujiro,1999, Dolls) e così prorompente (Sonatine,1993, Kids return,1996, Hana-Bi, 1997) è una prerogativa degli artisti che camminano nel mondo perdendosi e ritrovandosi, che cercano di ricordare e ricreano la vita ironicamente e malinconicamente, consci che qualcosa alla fine sfugge sempre.

Walter Rosas

(Pubblicato sul n°23 della versione cartacea, marzo 2004)

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