Succedono cose strane nei festival. Si premiano film discutibili, si discute di lavori impresentabili, si presentano pellicole che, per ragioni chiare soltanto a pochi eccelsi illuminati, andrebbero remunerate con tutt’altre gratifiche. Ecco, questo Il tocco del peccato, tanto per dirne una. L’hanno insignito di una delle massime onorificenze in quel di Cannes, la Palma d’oro alla miglior sceneggiatura, e francamente, dopo le oltre due ore fluviali di proiezione, non troviamo nessuna motivazione sensata se non l’esigenza di compromessi. Cosa scusabile, d’altronde, soprattutto se non si tratta di un brutto film, ma riconoscere dei meriti di scrittura a un’opera cinematografica che cade impietosamente proprio sulla mancanza di coesione narrativa, puzza molto di deliberato e sofisticato ludibrio.
Certo, Jia Zhangke, già Leone d’oro a Venezia 2008 con Still Life, non è uno sprovveduto, e realizza un piccolo capolavoro di neorealismo asiatico, con quattro storie che potevano intrecciarsi tra loro, ma che in realtà non lo fanno se non per sommi capi: nella prima un minatore decide di vendicarsi dei burocrati che si sono arricchiti vendendo la miniera del villaggio; nel secondo, un uomo scopre di preferire il gusto del sangue a quello più insipido della vita coniugale; il terzo segue invece una receptionist alle prese con coltelli e squartamenti, e l’ultimo si concentra sull’infatuazione di un cameriere per una prostituta dell’albergo in cui lavora. Niente di strano in tutto ciò, e infatti il film è un urlo di agonia sullo sfondo di una Cina metropolitana ma conservatrice, in bilico tra desiderio di modernità e insicurezza economica, impacciata nell’aprirsi al libero mercato ma a tratti paradossalmente nostalgica della (disastrosa) esperienza socialista. Insomma, stiamo parlando di cinema che in Italia si faceva soltanto a cavallo tra gli anni sessanta e settanta, e che in qualche modo riusciva ancora a rappresentare un paese contraddittorio, perplesso e lacerato, ma di sicuro capace di sentire la politica più e meglio di una partita di calcio. Che sia merito di Zhangke o delle circostanze in cui si trova a dirigere, poco importa, perché la sua nazione brulica di vita (e di morte), di energia e di rancore; e nonostante la violenza che deflagra, iperrealista, tarantiniana, entomologica, alla fine è la grandezza del paesaggio a scandire il ritmo delle sue storie di ordinaria follia, la delicatezza di volti troppo umani a edulcorare il pulp nel filtro della disamina sociale.
Proprio in questo sta il limite precipuo dell’operazione: Zhangke picchia come un pugile, ma pensa come un poeta. E un pugile che compone liriche, o che tenta di menare cartoni versificandoli in quartine, finisce per sembrare uno scomodo controsenso. Così, per ogni corpo maciullato, bucato dal piombo o scisso dalle lame, lo spettatore è costretto a sorbirsi la sua pudibonda divagazione, e non appena del sangue viene versato, subito il regista si giustifica accollandosi vicende minori, noiose, ripetitive, di cui francamente non frega un cazzo a nessuno. Non è giusto, non è morale aprire un film con un tizio che massacra a pistolettate tre rapinatori armati di accette, e concluderlo poi a tarallucci e vino, con personaggi che entrano ed escono senza ragione né coerenza, porte che sbattono ed episodi che sembrano preludere a qualcos’altro, ma che invece vengono troncati a metà. Per esempio, c’è questa donna che accoltella a morte il cliente di una sauna che aveva tentato di stuprarla; la giovane scompare per un po’, quindi ritorna in una breve scena in cui la si mostra durante un colloquio di lavoro, con un altro taglio di capelli e un’aria più rilassata dalla sua. Perché? Mistero, scorrono i titoli di coda e di lei, di ciò che rappresenta, non si sa più nulla. Immaginate un soggetto del genere ad ambientazione austriaca e Ulrich Seidl al quadro comandi. Ne sarebbe uscito un capolavoro, invece tutto ciò che è passato sulla Croisette (e presto anche da noi) è una grande ragnatela senza centro, i cui fili possono soltanto catturare i rumorosi, pedanti mosconi da kermesse e poco altro. Un po’ poco per sopravvivere, ma in tempo di crisi (festivaliera), sembra che tutto faccia brodo.
Marco Marchetti
Titolo originale: Tian zhu ding. Regia: Jia Zhangke. Sceneggiatura: Jia Zhangke. Fotografia: Nelson Yu Lik-wai. Montaggio: Matthieu Laclau. Musica: Giong Lim. Interpreti: Wu Jiang, Vivien Li, Lanshan Luo, Baoqiang Wang. Origine: Cina. Durata: 133 min.