C’è apocalisse e apocalisse. C’è quella catartica, alla moda, chiacchierata, annunciata, improvvisa, climatica, aliena. Poi c’è quella di Marco Ferreri. Quando nel 1969 arriva sugli schermi Il seme dell’uomo, il mondo non stava per finire: era già morto e stava per risorgere. Tutto quello che fino ad allora era comunemente accettato (lavoro, famiglia, religione, istituzioni) era stato appena messo in discussione da coloro che, da lì a pochi anni, ne avrebbero riabbracciato i valori.
Il veggente Marco Ferreri aveva previsto tutto e ce lo aveva raccontato attraverso la parabola di Cino e Dora, rimasti incolumi a un’imprecisata epidemia. Accettando il loro destino di (ultimi?) naufraghi dell’umanità, guardano alla sopravvivenza futura (lei) e alla sopravvivenza passata (lui). In un mondo consumista, dove il senso degli oggetti non è rappresentato dal loro scopo d’uso, ma dal significato intrinseco di marche, modelli e loghi, la resurrezione della specie umana è affidata più alla conservazione della memoria (Ciro allestisce un museo casalingo per perpetuare ciò che non c’è più) che alla costruzione di un futuro migliore (Dora invece si dedica alla caccia e all’agricoltura). I sopravvissuti hanno assistito alla morte dell’uomo, a quella del divino (il cadavere del papa assunto a simbolo, 40 anni prima la mediaticità di funerali reali e vaticani), vivono quotidianamente l’inutilità dei fronzoli, eppure aspirano al superfluo e alla ricostruzione di burocrazia, istituzioni, censimenti.
Un attacco rivoluzionario post sessantottino alla società del boom economico? La forma espressiva è quella povera ma efficace di un Ferreri incazzato (che si concede un cameo nel ruolo di un cadavere!), ancorato all’estetica di quei tempi, ma che mantiene ancora oggi una fresca carica sovversiva, adeguata all’Apocalisse prossima. Siamo certi che anche chi sopravvivrà alla profezia dei Maya aspirerà, prima di tutto, a ricostruire se stesso, a gettare il seme di quello che è ed è stato, e chi si opporrà soccomberà alla legge del più forte: quella del seme dell’uomo. L’eredità è il mezzo e il possesso lo scopo, nella speranza di (ri)assumere (il) senso e diventare immortali.
Buffo, per non dire triste, renderci conto che oggi, Il seme dell’uomo, possa essere scambiato per un film di product placement. Buffo, se non triste, accorgersi oggi che Il seme dell’uomo fosse profetico sulla nostra condizione di sopravviventi. Triste, se non buffo, scoprire che l’apocalisse è dentro di noi. Per tutto il resto c’è master card.
Sara Sagrati