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Il regno dei sogni e della follia

Sarebbe stato bello, e in una certa misura anche giusto, se Mami Sunada avesse girato tutto Il regno dei sogni e della follia con la macchina da presa a poco più di un metro da terra, per poter osservare tutto dal basso verso l’alto. Gli ambienti luminosi, i tavoli da lavoro con sopra le matite colorate, gli uomini. Tutto ripreso da sotto in su. Per guardare come guarda un bambino.

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Parrebbe una contraddizione in termini, ma c’è qualcosa di fiabesco in questo documentario. Questo qualcosa viene da un certo tipo di distanza che, ti accorgi, finisce per rimanere tra chi osserva e l’oggetto di quell’osservare. Ma non è distacco, anzi, è tutta un’altra cosa: è soggezione. Una soggezione del tipo buono, che discende da un’ammirazione sconfinata e, diciamolo pure, dall’amore. Il regno dei sogni e della follia è davvero, prima di ogni altra cosa, un atto d’amore. Questo amore è dichiarato da subito, in apertura di film, per la voce della stessa Mami Sunada. Fondato che era ancora una bambina, lo Studio Ghibli è per Sunada un luogo che appartiene ai territori dell’infanzia. Entrarci è entrare nel laboratoriounnamed del mago per vedere come nasce la magia.
Con queste premesse, hai un bel dirti che sei lì per girare un documentario. Forse è per questo che per farle da guida Mami Sunada si è scelta Toshio Suzuki, che dello studio Ghibli è il produttore. Uno cioè che per mestiere fa da ponte tra la creazione e il mondo esterno.
E’ soprattutto attraverso Suzuki che Il regno dei sogni e della follia arriva a mostrare il lavoro quotidiano di uno degli studi di animazione più importanti al mondo. Lo fa in un periodo particolare, forse cruciale, della sua storia: quello della realizzazione in contemporanea degli ultimi due film dei suoi soci fondatori: Si alza il vento (Hayao Miyazaki, 2013) e La storia della principessa splendente (Isao Takahata, 2013).
Tra i due maestri, è Miyazaki quello a cui viene dato maggior spazio. Takahata rimane per buona parte del film sullo sfondo, richiamato in scena per lo più dalle parole di Miyazaki e da quelle di Suzuki. L’impressione è che questo squilibrio sia dovuto più alla riservatezza di Takahata che ad una mancanza di Sunada. Rimane comunque il rammarico per non aver potuto assistere ad un confronto più ampio ed aperto tra i due registi che hanno saputo aprire una nuova strada al cinema di animazione. Ma bisogna anche dire che ci si consola in fretta, dal momento che il VVZUWOSwI6ShT-xf_pdsolo Miyazaki basta ed avanza. Dal momento in cui mette piede nello studio fino al momento in cui se ne va (e un poco anche oltre) Miyazaki porta avanti il proprio lavoro con la cura di un artigiano scrupoloso. Forte della propria esperienza e delle proprie capacità, eppure non esente dal dubbio e dall’incertezza. Incline a quella risata così tipica della cultura giapponese, che è ridere di se stessi per un senso del pudore troppo accentuato, ma senza nascondere improvvise aperture a un disincanto che culmina nel pessimismo riguardo al futuro dello Studio e alla società in generale. Tutto questo costantemente con una matita in una mano e una sigaretta nell’altra.
Un giorno dopo l’altro, un disegno dopo l’altro, Sunada lo osserva con gli occhi della fan che non ha il coraggio di fare la domanda di troppo. Punta su di lui la macchina da presa come aspettandosi un gesto improvviso e geniale, un gesto come la materializzazione della magia. Ma quel gesto non arriva mai. Miyazaki semplicemente fa il proprio lavoro, cercando di farlo il meglio possibile. La magia arriva, ma sembra stare in un tempo che è al di là dei suoi gesti. Come il fiorire è un gesto che sta al di là del tempo del seminare, anche se in esso è contenuto. La magia arriverà e fiorirà nei suoi film, come in quelli di Takahata. Sunada lo sa, perché è da quando ha sette anni che se ne riempie gli occhi. Nel tentativo di restituircela sta tutto il senso del suo documentario.

Matteo Angaroni

Il regno dei sogni e della follia

Regia, sceneggiatura, fotografia e montaggio: Mami Sunada. Origine: Giappone, 2103. Distribuzione: Lucky Red. Durata: 118′.

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