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Il regno

ilregnoIl vicesegretario regionale di un importante partito nazionale, Manuel López-Vidal, nutre giustificate ambizioni di salire fino a Madrid. Dopo lunga gavetta, nonostante l’interruzione prematura dei suoi studi, è arrivato a consolidare un sistema di potere basato sulla corruzione. Piccoli favori tra amici di partito e gestione truffaldina della Cosa Pubblica hanno accresciuto i conti correnti della Casta e alimentato la sensazione di essere intoccabili in un quadro di regole tacite e assodate tra esponenti di forze non necessariamente alleate: il Regno, appunto. Quando una serie di intercettazioni rischiano di far saltare il giocattolo, López-Vidal (detto Manu) viene isolato dai vertici del suo partito. Identificato dalla stampa come responsabile di uno scandalo che vede conti gonfiati, mazzette, benefit di ogni tipo, Manu non si accontenta della promessa di una sentenza pilotata che potrebbe evitargli il carcere, poiché decide di contrattaccare per dimostrare che il Regno è corrotto nella sua totalità, fino a toccare i vertici di stanza permanente a Madrid.

el-reinoVincitore in Spagna di ben sette premi Goya (tra cui miglior regia e sceneggiatura originale), Il regno è un thriller politico ambientato sul finire del primo decennio del nuovo millennio. Film dal ritmo serratissimo, merito di un montaggio e un impianto sonoro strepitosi (premiati con altri due Goya), senza pietà affonda nel sistema corrotto e clientelare spagnolo, anche se per lo spettatore italiano non sarà difficile riconoscere una certa familiarità nel racconto del regista Rodrigo Sorogoyen. Manu, interpretato da un grande Antonio de la Torre (altro Premio Goya e già apprezzato in La Isla Minima), sin dalla prima inquadratura del film è presentato come un capobanda: inquadrato da una macchina da presa a mano in vesti eleganti su una spiaggia isolata, lo seguiamo in piano sequenza entrare dal retro di un ristorante, attraversare le cucine con il piglio di chi conosce e controlla ogni angolo, fino alla sala dove porta dei succosi gamberoni ad amici e consorti seduti intorno ad una tavola riccamente imbandita. Sembra Godfellas (Quei bravi ragazzi) di Scorsese, il riferimento è scoperto, subito ad inizio film, ma non siamo di fronte a una famiglia di malavitosi italoamericani di New York, perché intorno a quella tavola, a divorare voracemente crostacei ci sono gli esponenti di un importante partito spagnolo (di centro-sinistra? centro-destra? non si capisce ma non fa differenza) che si cinema-il-regno-sliderpreparano a fare il salto dalla Regione alle poltrone di Madrid. Le prime scene sono tesissime, accompagnate da una musica insistente che lega ambienti e personaggi, definendone i rapporti interpersonali, sfumature di amicizie nate dall’opportunità di aiuti reciproci fino alla cieca fedeltà. Invece scoppia lo scandalo che promette di minacciare i pilastri di vite che navigano nel lusso sfrenato e nella certezza di intoccabilità, come se far parte del Regno rendesse questi uomini e queste donne ingranaggi insostituibili. Invece, perché sopravviva, il corpo del partito (e della politica in generale) deve sacrificare ogni tanto qualche anello debole, ovvero colui che per sventura o per inettitudine commette un errore e, nel pur consolidato, condiviso e taciuto sistema truffaldino, viene pescato con le mani nel sacco. Far fuori l’anello debole significa da una parte declassare lo scandalo ad errore di percorso, dall’altra mostrare all’elettorato risolutezza nel ripulire i ranghi da mele marce, come se la favola degli onesti in politica, vecchia quanto gli imperi, non sia mai passata di moda.
Per questo López-Vidal ingaggia una battaglia solitaria ai limiti del credibile, ma perfettamente nei confini del thriller, contro un sistema che sembra invece sempre sul punto di stritolarlo. E siccome il potere logora chi non lo ha (o lo ha perso sul più bello), dimostrare di essere il capro espiatorio, l’agnello sacrificale di una macchina sudicia, e che non solo lui, ma tutto il partito ha scheletri nell’armadio che potrebbero far saltare mezzo parlamento, trasforma Manu in un personaggio quasi eroico.


Rodrigo Sorogoyen gioca bene le sue carte perché lo spettatore rimanga incollato a Manu, che non è certo un personaggio positivo, senza per altro perdere la centralità tematica che ci mette di fronte alla vergognosa macchina della politica, alle abitudini consolidate di gentaglia senza qualità, alle giustificazioni intollerabili di chi pensa che i privilegi non siano che un modesto tornaconto in un lavoro che prevede – perché non c’è alternativa – lo sconfinamento nell’illegalità delle truffe, degli abusi d’ufficio e dei concorsi truccati. Il Regno dunque come la Casta. La traiettoria iperbolica di Manuel López-Vidal è la vicenda oscena di un mostro con cento teste, ognuna delle quali, giustificando condotte invereconde, ha smontato l’etica  del proprio ruolo istituzionale e il patto di fiducia con i cittadini. Per questo una giornalista agguerritissima, senza pietà smonta l’aura di eroe novello del politico perseguitato da diavoli più pericolosi di lui, azzerando la questione dell’essere meno peggio di e domandando a Manuel López-Vidal “se si sia mai fermato per un momento nella sua vita a pensare a cosa stava facendo” (ovviamente quando la poltrona ce l’aveva ben stretta).

Vera Mandusich

Il regno

Regia: Rodrigo Sorogoyen. Sceneggiatura: Isabel Peña, Rodrigo Sorogoyen. Fotografia: Alejandro de Pablo. Montaggio: Alberto del Campo. Musiche: Olivier Arson. Interpreti: Antonio de la Torre, Monica Lopez, José María Pou, Bárbara Lennie, Nacho Fresneda, Ana Wagener. Origine: Spagna, 2019. Durata: 118′.

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