La storiografia recente è ormai propensa a interpretare la celebre leggenda dei gemelli fondatori di Roma nell’ottica del conflitto di civiltà, all’interno del quale si contrappone da un lato, un’idea di aggregazione già di tipo urbano, concepita in modo centralistico, con le sue istituzioni, i suoi matrimoni regolamentati, l’istruzione dei rampolli, il culto religioso associato alla figura dello Stato; e dall’altro, una visone dell’esistenza ancora agreste, selvaggia, senza regole, in cui uomini e animali vivono a stretto contatto tra loro, divorandosi a vicenda, al punto da assomigliarsi e fondersi in creature dall’aspetto mostruoso: fauni depravati, luperci assetati di sangue e di donne; lemuri che tornano dal regno dei morti per destabilizzare l’ordine di Giove. Quando Remo, incarnazione di quest’ultimo universo, varca il solco della neonata città di Roma, la reazione di Romolo non può che essere di respingimento, omicida, fratricida. La morte del lupo, tuttavia, assume la connotazione del sacrificio, come se il sacrificante non potesse fare a meno di rintracciare nella figura selvaggia del rivale un’innocenza primordiale propria, una semplicità infantile capace di aprirsi al mondo con lo stupore di chi, scoprendo lo spazio esterno, conosce e reinventa se stesso, assecondando una natura inaspettata, oscura proprio in quanto ingenua, pura, meravigliosamente libera.
Il potere del cane s’inscrive perfettamente in questo quadro di vita selvaggia che si ribella a un West ormai definitivamente conquistato, che non lascia cioè più spazio ad altre avventure e a nuove cavalcate verso il sole rosso del tramonto: una vita intrappolata in confini insopportabilmente circoscritti e definiti; una vita al chiuso, disciplinata da consuetudini e modelli sempre più consolidati, mentre tutt’intorno il vasto panorama seguita a esibire la propria virginale e sensuale danza di rocce, praterie e torrenti, alla stregua di atavico richiamo, nel quale sentimenti contraddittori e inconfessabili sembrano ancora in grado di contrastare la modernità dirompente, facendo sembrare la modernissima automobile a motore un minuscolo giocattolo caricato a molla dal rumorino ridicolo e sgraziato.
Jane Campion ricostruisce il declino di un’epoca leggendaria con sorprendente capacità drammaturgica, facendone un mondo oscillante, disorientato, potremmo dire sbronzo, proprio come il personaggio di Rose Gordon (Kirsten Dunst), incapace di trovare la propria identità, in balia di due fratelli dalle opposte nature, George e Phil Burbanks (Jesse Plemons e Benedict Cumberbatch): il primo, uomo buono, alla ricerca di stabilità coniugale e familiare, immagine stessa di una cultura americana nuova, proiettata verso il futuro che sarà – sedentario, cosmopolita, edificante –; il secondo, rozzo, violento, pervicacemente ancorato ai rudi costumi dei vecchi pionieri e della vita all’aperto, simbolo di un’esistenza in movimento, libera e conservatrice al tempo stesso.
La Campion, tuttavia, non cade nella trappola degli stereotipi, al contrario, fa dei suoi personaggi, persino quelli minori, dei soggetti in perenne trasformazione, plasmandoli e ricreandoli di continuo, aumentandoli e diminuendoli, fino a farli quasi scomparire, con una disinvoltura narrativa tale – meritatissimo l’Oscar alla regia agli Awards 2022, mentre stupisce il mancato riconoscimento alla capacità di scrittura – da permettersi persino di dialogare direttamente con lo spettatore, senza sguardi in camera, senza far vacillare la sospensione dell’incredulità. Paradigmatica, in questo senso, è la frase che il rozzo Phil rivolge al giovane Peter (Kodi Smit-McPhee) fino a quel momento vessato all’inverosimile – «Io e te siamo partiti con il piede sbagliato» –; è una frase che sovverte l’andamento narrativo del film; una frase che il personaggio rivolge proprio al pubblico, coinvolgendolo nella storia da protagonista e invitandolo a rimettere in discussione se stesso e le proprie convinzioni. È il cane che si fa climax, e che di fatto preannuncia una passione imminente, terribile e inevitabile. Il ritorno alla sobrietà, infatti, ha sempre un prezzo da pagare, ossia l’eliminazione della componente destabilizzante, del lato più autentico della natura umana, proprio nel momento della sua massima debolezza, del suo assoggettamento, della sua apparente redenzione. Lasciando quasi tutto al non detto, tra tensioni paternalistiche, incestuose e omossessuali appena evocate, che non scadono mai nella gretta esplicitazione alla Brokeback Mountain, Jane Campion racconta in modo incredibilmente poetico la vicenda delle due opposte anime degli Stati Uniti d’America e del sacrificio della componente dionisiaca, in nome del trionfo della bontà della ragione sull’irrazionale, sul disordine del proibito, sulla crudeltà del mondo selvaggio, che da questo momento però, lungi dall’essere stata sconfitta del tutto, si urbanizza a sua volta, così da acquisire qualità razionali che la renderanno ancor più terribile e pericolosa. È la rivincita silenziosa di tutti i Remo e i Phil della storia: la rivincita della Natura, la rivincita del cane addomesticato, che rinnova il suo bestiale potere.
Manuel Farina
Il potere del cane
Regia: Jane Campion. Sceneggiatura: Jane Campion. Fotografia: Ari Wegner. Musica: Johnny Greenwood. Montaggio: Peter Sciberras. Scenografia: Grant Major. Interpreti: Benedict Cumberbatch, Kodi Smit-McPhee, Kirsten Dunst, Jesse Plamons. Origine: UK/Canada/Nuova Zelanda/Australia, 2021. Durata: 126’.