Ci sono una bambina e i suoi sogni, sua madre e le sue ambizioni. Anzi, ci sono sogni che sembrano rinchiusi in ambizioni adulte, troppe “adulte”. La mamma, infatti, ha già deciso: sua figlia dovrà accedere alla prestigiosa Werth Academy e diventare così una manager di successo. Per questo le due si trasferiscono in un nuovo quartiere. Per questo, secondo la migliore logica dell’efficienza, ogni momento della giornata della piccola è scandito da un programma orientato all’accesso alla nuova scuola. Del resto, si sa, per diventare un adulto degno di rispetto si deve fare fatica. Eppure, le cose non sempre filano lisce. E meno male. Accanto alla nuova abitazione vive un vicino un po’ strampalato, un anziano aviatore che ama i fiori e che, soprattutto, ha una storia da raccontare, la storia di un Piccolo Principe rimasta a lungo inascoltata.
È questa la cornice in cui Mark Osborne, acclamato regista di Kung Fu Panda, incastona il romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, una storia nella storia che prova a mantenere intatta la delicatezza e la profondità dell’originale. Non era facile, davvero. Il Piccolo Principe è un classico tradotto in almeno duecento lingue che ha già conosciuto riproposizioni cinematografiche, non tutte degne di nota. C’era il problema dei mille piani di lettura che s’intrecciano in un racconto apparentemente semplice. E poi c’era il suo problema di sempre, quello di una storia per bambini che in realtà è una storia per adulti, o meglio quello di una storia indirizzata anzitutto al bambino che ognuno di noi è stato e spesso dimentica di poter continuare a essere.
Serviva una sceneggiatura solida. Irena Brignull e Bob Persichetti riescono a realizzarla tagliando quello che devono e insistendo senza retorica sull’essenziale, lo sguardo del cuore che è in grado di non fermarsi a ciò che gli occhi più o meno oggettivamente riescono a vedere. E tuttavia, se, come Saint-Exupéry ci tiene a dire, «l’essenziale è invisibile agli occhi», la regia non poteva che inciampare nel paradosso di una narrazione che allude all’invisibile servendosi del visibile. Perché pur sempre di un film si tratta e qui il visibile conta, eccome. Osborne risolve questa impasse ricordandoci che ciò che si mostra si rivela spesso ben altra cosa rispetto a quello che gli occhi semplicemente vedono, nella vita come al cinema. Così anche la forma si scontra e si confronta con questo paradosso. L’alternarsi delle tecniche di animazione ne è la conferma più evidente ogni volta che nella storia nella storia, quella del Principe bambino che giace nascosto in ognuno di noi, si ricorre alla rappresentazione in stop-motion, al disegno animato caro ai nostalgici. Una scelta stilistica che non è un caso e nemmeno un’operazione d’antiquariato – non può esserlo – perché è proprio dove ci si avvicina all’essenziale che le più moderne immagini computerizzate lasciano il posto al classico movimento fotogramma per fotogramma, alla sobrietà stilizzata di care e vecchie immagini bidimensionali. Il mix riesce delicatamente, senza disturbare. Non era facile, nemmeno questo.
Resta di certo più estraniante, almeno per i più affezionati alla storia del famoso Principino, la parte finale del film in cui la narrazione si concede le maggiori libertà nei confronti dell’originale. Osborne getta lo spettatore in un pianeta fatto di grattacieli, uomini d’affari e sovrastato da un cielo a cui sono state rubate anche le stelle. Un pianeta grigio anche se molto efficiente, come il nostro. È qui che l’adulto si sentirà più in difficoltà. Si dirà forse, con pacata delusione: «questa non è la storia del Piccolo Principe!». Ma in fondo anche questa sua amarezza è solo l’abitudine a vedere unicamente con gli occhi, lo sguardo ormai disincantato che non si riesce a tenere a bada persino quando si ha ben presente il messaggio di Saint-Exupéry.
Ma qui non si tratta di vedere, bensì, molto banalmente per i più disillusi, di sentire. E Osborne ci chiama a questa sfida. Sarà forse allora il bambino che al cinema siede accanto all’adulto l’unico in grado di destarlo, almeno per qualche istante. Quel bambino probabilmente esclamerà con entusiasmo: «Non è la storia del libro? Meglio così!». Già, perché si può scardinare la trama di un classico senza per questo smarrirne l’essenziale, lo spirito. Si può svelare la metafora senza tempo di un’opera rammentandoci che la Volpe che addomestichiamo ogni volta che stringiamo un legame, il Serpente che ci uccide, la Rosa che tanto amiamo e da cui presto o tardi dovremo congedarci e infine il Piccolo Principe, che sa scorgere un elefante dentro un boa dove tutti vedono un cappello, sono lì, accanto a noi. Siamo noi. Ieri per de Saint-Exupéry ieri, oggi per Osborne il problema resta dunque sempre lo stesso: «non è diventare grandi, ma dimenticare». Perché a ricordare si fa fatica, forse più che a crescere.
Luca Scarafile
Il Piccolo Principe
Regia: Mark Osborne. Sceneggiatura: Irena Brignull e Bob Persichetti. Montaggio: Matthew Landon, Carole Kravetz Aykanian. Doppiaggio italiano: Lorenzo D’Agata, Paola Cortellesi, Vittoria Bartolomei, Stefano Accorsi, Micaela Ramazzotti, Toni Servillo, Alessandro Gassmann, Alessandro Siani, Giuseppe Battiston, Pif, Angelo Pintus, Carlo Valli, Carlo Reali. Musiche: Richard Harvey, Hans Zimmer. Origine: Francia, 2015. Durata: 108’.