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Il paradiso probabilmente

Con Il paradiso probabilmente Elia Suleiman non tradisce il cinema che gli è più caro. Commedia algida, a tratti surreale, come sempre ciondolante tra Tati e Beckett, in continuità nei toni con i precedenti Intervento divino Il tempo che ci rimaneIl paradiso probabilmente ripropone Suleiman nella veste di attore come narratore interno dichiarato, nonostante un mutismo selettivo spezzato solo quando… (qui eviterei lo spoiler).
Suleiman interpreta se stesso a caccia del denaro necessario per produrre un film che ha per titolo titolo It Must be Heaven. Da Nazaret a Parigi, poi a New York e di nuovo in Palestina, il regista costruisce un racconto di frammenti lineari, brevi sit-com a volte paradossali che lentamente definiscono il paradigma allegorico del film. Suleiman osserva il teatrino della vita posizionandosi dentro la scena e al tempo stesso rimanendone fuori, appuntando le piccole follie di uomini e donne sulla parabola aerea che collega il Medio Oriente all’Occidente. Sono siparietti che funzionano come le strisce satiriche a fumetti di certi quotidiani (e che lo spettatore può interpretare liberamente), alcuni più riusciti di altri, ma che nell’insieme, per accumulo, segnano una visione senza incanto del mondo contemporaneo, cinico e opportunista, dove la comunicazione è azzerata o è ridotta a forma di potere. La parola soprattutto. Il silenzio di Suleiman è una forma di resistenza dunque? O il rifiuto all’interlocuzione nell’epoca dei twit (il regista che litiga con un uccellino che gioca con la tastiera del suo Mac) sembra dirci che la parola non solo ha smesso di essere linguaggio nel frastuono di piccole cattiverie che costellano la vita nelle città, ma che non ha più la funzione di definire alcunché, di spiegare il mondo nominando gli elementi che lo costituiscono. Nazaret come New York, o il centro di Parigi che si prepara alla parata del 14 luglio, sono luoghi dell’incomunicabilità e del disorientamento. Il paradiso probabilmente è un Playtime che si interroga meno sui cambiamenti antropologici di cui Tati si faceva cantore, per interpretare in chiave politica l’irragionevolezza dei conflitti nei sistemi sociali in contesti apparentemente distanti, e su scale diverse. Se la comicità di Suleiman è raffreddata dalla messa in scena di automatismi comportamentali ridicoli sì, ma estremamente inquietanti (basti pensare alla caccia alla sedia in un parco parigino, che non risparmia anziani e disabili), ancor più glaciale è la scelta di inquadrare gli ambienti con prospettiva rigorosamente centrale, creando specularità sull’asse verticale: lezione keatoniana – certo – ma senza volontà costruttivista (o decostruttivista), che per Buster aveva lo scopo di comprendere lo spazio per azione del comico che lo attraversava e che successivamente lo manipolava, anche distruggendolo. Gli attraversamenti urbani sono spesso dettati dal non-sense e, ciò che è peggio, gli individui sembrano vagare sotto l’effetto di un narcotico, quando non addirittura lobotomizzati. Uomini e donne: il maschile ridotto ad un’aggressività bestiale; il femminile ricondotto alla bellezza patinata della moda, inafferrabile scheggia di luce in un monitor Led. Fuori dal coro, due donne a discordare e a rimettere vita sotto i cieli di Suleiman: una contadina che con fiera eleganza trasporta dell’acqua nel silenzio della campagna palestinese; una giovane mezza nuda, coperta dai colori della bandiera dello stato/non-stato di Palestina, che a Central Park inneggia alla libertà e scompare nel nulla dopo essere stata coperta da una decina di poliziotti.


Suleiman osserva per raccontare il declino prossimo dell’umanità in un triangolo invisibile i cui vertici sono i suoi occhi, ciò che gli stessi occhi guardano, e i nostri occhi incrociati in ogni sguardo in macchina, anche quando l’autore si congeda dal centro dell’inquadratura per farsi comparsa come nel 18° Annual Arab American Forum for Palestine, defilato al tavolo degli invitati, tanto da non capire (noi e lui anche) se sia lì per coincidenza o per volontà. Il pubblico accorso inneggia alla Palestina Libera. Fuori, tra le strade di NY in pochi sanno dei territori occupati. Nei piani alti di un edificio di Manhattan un produttore cinematografico si nega al regista, rafforzando il rifiuto del collega francese, che in precedenza aveva garbatamente liquidato il copione di It Must be Haeven in quanto troppo e troppo poco palestinese. Roba da togliere la parola, appunto.
Il paradiso probabilmente è dunque un film che c’è e non c’è al tempo stesso, e dove c’è si diverte a cinguettare twit allusivi che della Palestina forse non dicono o dicono troppo, quando suggeriscono che l’Occidente è una terra confinata tra incubo e illusione. Un po’ come la Palestina.

Alessandro Leone

Il paradiso probabilmente

Sceneggiatura e regia: Elia Suleiman. Fotografia: Sofian El Fani. Interpreti: Elia Suleiman, Gael Garcia Bernal, Ali Suliman, Elia Suleiman, Grégoire Colin, Stephen McHattie, Kwasi Songui. Paese: Francia/Qatar/Germania/Canada/Turchia/Palestina, 2019. Durata: 97′.

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