Nick Carraway è un simpatico giovanotto che si muove nel rutilante scenario dei ruggenti anni ’20. In una Long Island divisa tra East e West Egg, vecchi e nuovi ricchi, Nick avrà modo di trovarsi a metà tra due realtà simili nella ricerca della leggerezza quasi forzata e della sfrenatezza a tutti i costi, ma irrimediabilmente divise da rigide convenzioni sociali. A dominare su tutti la figura di Jay Gatsby, il misterioso vicino di Nick che ha fatto della sua immensa casa il tempio del festeggiamento. Tutta New York sembra riversarsi spontaneamente durante il weekend nella fastosa abitazione di Gatsby, ad eccezione della cugina di Nick: Daisy Buchanan, moglie di un volgare erede di una delle più altolocate famiglie d’America. Ma un inaspettato invito ricevuto da Nick cambierà il destino dei protagonisti.
A Baz Luhrmann le feste piacciono tanto, come dimostrano i suoi lavori precedenti. Dopo il deludente Australia non sorprende che il regista abbia scelto di adattare in una chiave molto personale il romanzo che contiene alcuni tra i personaggi più glamour della storia della letteratura. I barocchismi che caratterizzano l’opera di Luhrmann risultano però in questo caso eccessivi e spesso fuori luogo. Luhrmann cita espressamente Moulin Rouge, trasformando il personaggio di Nick (Tobey Maguire) da semplice operatore di borsa ad operatore di borsa/scrittore maledetto, come il Christian interpretato da Ewan McGregor, e cercando di creare un simulacro dello stesso Fitzgerald. Altra analogia con Moulin Rouge sono le immense carrellate velocissime sulla città. A dispetto di una formula già collaudata, Il Grande Gatsby sembra perdere qualcosa a livello di contenuto, nonostante Luhrmann si sforzi di mantenere un’aderenza quasi esagerata al testo originale. Tutta la riflessione si sviluppa quindi sulla forma.
Anche la colonna sonora accompagna questa scelta di stile. Risulta strana la contaminazione tra jazz, elemento fondamentale all’interno della narrativa di Fitzgerald, e pop moderno. Lana Del Rey confeziona un tema musicale che ben si sposa con le nostalgiche atmosfere dell’opera.
A riequilibrare il baricentro del film intervengono massicciamente i protagonisti, su tutti Leonardo Di Caprio, che aveva già lavorato con Luhrmann in Romeo+Giuletta (1996). L’attore, in versione 2.0, si è fatto uomo dopo il sodalizio con Scorsese, e sa tratteggiare con padronanza la complessa essenza di Jay Gatsby.
Di Caprio sembra autonomo da qualsiasi direzione, riesce a riportare sullo schermo l’intento di Fitzgerald di critica alla società. Gatsby è un personaggio disabituato all’umanità e all’affetto sincero. L’ipocrisia latente nella comunità americana sembra rendere vano ogni suo sforzo di integrazione. Solo l’elevazione conseguita con immenso sforzo e vista con sospetto sembra consentirgli di appartenere a quel mondo così falso eppure così terribilmente attraente. Nick, nella sua consapevolezza di non appartenere alla upper class, è l’unico ad apprezzare il James Gatz dietro Gatsby e a renderlo veramente Grande.
La luce verde situata sul molo della sua casa, tanto vicina quanto effimera, che Gatsby osserva melanconicamente attraverso la baia, si fa metafora dell’irraggiungibile sogno americano e di una promessa ormai impossibile da mantenere.
Dopo la notevole performance di Carey Mulligan in Shame, ritroviamo l’attrice britannica nel ruolo della malinconica e superficiale Daisy, un personaggio che rappresenta vizi e virtù della propria epoca.
A completare il quadro contribuiscono le interpretazioni di Joel Edgerton, perfetto nel ruolo di Tom Buchanan, la party girl Isla Fisher, che recita se stessa nel ruolo di Myrtle, ed Elizabeth Debicki nei panni di Jordan Baker.
Quella di Luhrmann è la quarta trasposizione cinematografica del romanzo, ma il modello con il quale si deve inevitabilmente confrontare è la versione del 1974, diretta da Jack Clayton e sceneggiata da Francis Ford Coppola. Una versione che era caratterizzata da toni chiaroscurali che alludevano alla memoria, come dichiarava la scena d’apertura che raffigurava una serie di oggetti di uso comune di Gatsby, ma ormai impolverati. Indimenticabile la performance di Robert Redford, romantica silhouette che si stagliava sulla baia in attesa del momento giusto per riafferrare il passato. Daisy era un’incantevole Mia Farrow, delicata e pronta a distruggere con la sua indecisione e la sua perpetua insoddisfazione la vita dei suoi cari. A differenza di Baz Luhrmann, che seguendo il testo in maniera quasi pedissequa, introduce una serie di flashback per far luce sul passato di Gatsby e Daisy, Clayton mantiene la cinematografica capacità di far intuire senza eccedere nel mostrare. Gatsby per Clayton/Coppola è un personaggio assolutamente candido, mentre Luhrmann sceglie di far apparire anche le cicatrici che la società ha lasciato sull’anima del protagonista.
Ciò che resta inossidabile è la estrema fedeltà di Gatsby al proprio sogno d’amore, come dimostra il motto che troneggia sulla cancellata della magione: ad finem fidelis. L’estrema attenzione al dettaglio dimostrata da Luhrmann, e nonostante ciò la scarsa efficacia di alcuni passaggi del film, riapre la questione su quanto sia corretto attenersi ad finem fidelis a un testo, e se la fedeltà consista nel mero riproporre sullo schermo l’opera letteraria, oppure nel coglierne lo spirito per darne nuove letture. Baz Luhrmann ha forse perso il suo spirito innovatore ed un po’ di coraggio, dimenticando che le sue reinterpretazioni de la Traviata (Moulin Rouge) e Romeo e Giulietta in chiave moderna hanno fatto il suo successo.
Nicolò Di Dio e Giulia Colella
Il Grande Gatsby
Regia: Baz Luhrmann; Sceneggiatura: Baz Luhrmann, Craig Pearce; Fotografia: Simon Duggan; Montaggio: Jason Ballantine, Jonathan Redmond, Matt Villa; Interpreti: Leonardo Di Caprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan, Joel Edgerton, Elizabeth Debicki, Isla Fisher; Origine: Usa, Australia, 2013; Durata: 143’.