Una delle più belle sorprese del Biografilm 2016 è Il fiume ha sempre ragione di Silvio Soldini, un oggetto che sembra fuori dal tempo ma che è attualissimo. Il film segue Alberto Casiraghy che, proprio come Johannes Gutenberg, ha trasformato la sua casa di Osnago in una vera “bottega” editoriale: con una vecchia macchina a caratteri mobili stampa piccoli e preziosi libri di poesie e aforismi. Non molto lontano, oltre il confine svizzero, Josef Weiss per realizzare le sue edizioni artistiche unisce la sensibilità del grafico con la tecnica del restauratore.
Il film è un perfetto contrappunto al The Brand New World – Raccontare la civiltà digitale, il tema del festival, che parla di un mondo tutto digitale che è stato narrato dai film di Herzog e Gibney. Qui invece Silvio Soldini restituisce un ritratto umanissimo di due artisti-artigiani che hanno scelto di fare un mestiere antico in un mondo moderno e hanno conquistato il successo più grande. Ne è uscito un piccolo film realistico e poetico, in cui vediamo i polpastrelli che sfiorano la carta, i vecchi caratteri di piombo che formano magiche composizioni, vediamo creare un piccolo libro in “presa diretta”.
È un film che si adegua al ritmo e all’anima del lavoro artigianale dei due fantastici protagonisti, è il lavoro manuale nel prodigio del suo compiersi. Il film si sviluppa alternando le due case-laboratorio, regalandoci così frammenti di vita e di lavoro sia di Casiraghy che di Weiss, unendo l’arte poetico-brianzola del primo e un certo rigore svizzero ma pieno di fantasia del secondo. Nell’ultima parte del film i due s’incontrano in un luogo di confine, prima a Morcote e poi a Porto Ceresio guardando il lago di Lugano: la natura è forse il modo con cui Soldini, a partire dal titolo, ha voluto unire i due protagonisti e dirci qualcosa sul un pezzo di mondo che è antico ma che è profondamente legato al modo di vivere. Dopo la proiezione ne abbiamo parlato dopo il film con Silvio Soldini, Alberto Casiraghy e Josef Weiss.
Come è nato il film?
Silvio Soldini: Il film partiva dal voler mostrare il loro lavoro editoriale con i caratteri di piombo, le particolari edizioni di Josef e Alberto (il Divan di Weiss e le edizioni di PulcinoElefante di Casiraghy), ma è venuta fuori una filosofia di vita che appartiene a entrambi, non è identica ma è quella filosofia personale che poi portano direttamente nel loro lavoro. Il film è così un po’ il ritratto della vita di tutti i giorni, di quasi tutti i giorni: da Alberto arriva qualcuno e fanno un “libretto”, lui non fa mai un libro da solo, c’è sempre un lavoro collettivo nella creazione, perciò abbiamo girato quando c’erano situazioni di questo tipo. In verità ho girato solo cinque giorni da da uno e cinque dall’altro e un giorno quando Alberto e Josef si sono incontrati. Sono prima andato a trovarli e li ho osservati per qualche giorno e poi ho deciso di girare, mi son messo lì in disparte ho aspettato che qualcosa succedesse, e siccome qualcosa succede sempre è venuto fuori questo il film.
Perché il titolo Il fiume ha sempre ragione ?
Silvio Soldini: Mi piaceva perché il fiume ha un suo andare, un suo ritmo, pacato ma inesorabile che va verso valle con il suo andare poetico ma deciso, e credo sia qualcosa che ha a che fare con la filosofia di Josef e Alberto, con le loro vite che ho cercato di cogliere in questo film aldilà della capacità manuale e artistica. Mi piaceva cercare il loro stare al mondo personale di fronte un mondo che sta andando in una direzione contraria, è una cosa che mi affascinava e che credo sia la vera anima del film. Un film in cui ci si deve adagiare e farsi trasportare…
Come hai lavorato sul suono del film? C’è pochissima musica e si sente anche il rumore del lavoro manuale.
Silvio Soldini: Mi piaceva molto la presa diretta, i luoghi (la casa-laboratorio di Alberto e lo studio di Josef) hanno delle sonorità caratterizzanti, c’è come la sensazione di un mondo a parte, il rumore della carta, il rumore del piombo, i cassetti dove escono le fantasie degli artigiani erano già una musica sufficiente per il film.
Alberto e Josef, come vi siete visti nel film e come vedete il futuro dell’editoria?
Alberto Casiraghy: Devo dire che è stata una grande gioia passare il tempo con Silvio quando abbiamo girato. Ora, a vederci sul grande schermo, sembriamo due dinosauri! Anche se devo dire che da poco ho scoperto il tablet e c’è un universo lì dentro, i caratteri mobili mi piacciono ancora di più… però il tablet non bisogna sottovalutarlo, il 3d è una cosa incredibile.
Josef Weiss: Pure io amo il piombo, ma credo alla coesistenza, io uso anche il computer. I giovani di oggi hanno una partenza migliore della nostra, noi siamo qui come dinosauri vero, ma siamo forse un ponte e colleghiamo una storia lunghissima (le origini della stampa) con un futuro che verrà.
Alberto Casiraghy: noi siamo anche fortunati, abbiamo la fortuna di essere un po’ creativi e di giocare con la vita e non con gli assegni, si dice spesso anche con Josef che gente più ricca di noi due non li ho mai conosciuti, la creatività è fare qualcosa con le mani, piegare un foglietto rosso è come essere uno Stradivari… è vero andiamo verso un mondo incontrollato ma è giusto così, il mondo è così, è bello che sia incontrollato.
Nel film emerge anche la possibilità dell’errore, il fatto che la perfezione non è sempre necessaria e questo forse vi caratterizza ancora di più rispetto al mondo moderno in cui sembra regnare la precisione, spesso finta.
Josef Weiss: Io dico sempre che la perfezione è la morte, un artigiano è buono quando riesce a far sembrare un oggetto perfetto, lui conosce tutti i piccoli sbagli e le possibilità di migliorare sempre, dobbiamo migliorare sempre le nostre cose.
Alberto Casiraghy: Montale diceva che un errore ci può sempre stare, due sono troppi. Soprattutto io che stampo spesso poesie di cinque righe, non è che posso fare troppi errori, però si è vero c’è anche un po’ di poesia nel sbagliare.
In qualche modo in questo viaggio nell’analogico del libro, si può vedere anche qualcosa sul lutto del cinema e della pellicola che sta ormai scomparendo (grazie ad Andrea Romeo, il direttore del Festival, per questa domanda che apre molte strade interessanti).
Silvio Soldini: Forse avrei dovuto girare qualche momento in pellicola? Forse, ma ormai in Italia la pellicola non c’è più e ci sono grossi problemi se si vuole ancora girare così, c’è un laboratorio per lo sviluppo solo in Germania. È difficile, il digitale diciamo che mi ha permesso di girare un film così, ci sono vantaggi e svantaggi, è vero che quando vedi un film in pellicola vedi una pasta diversa, ma forse ancora di più c’è un tempo diverso nella pellicola, c’è proprio un tempo diverso che nel digitale non c’è, tu fai un’inquadratura ferma in pellicola e qualcosa si muove sempre, in digitale invece c’è quasi il gelo. Per questo quando giro in digitale uso spesso la macchina a mano, perché anche nell’immobilità di un’inquadratura statica cerco un leggero tremolio che mi serve per umanizzare il digitale che altrimenti è troppo glaciale. Comunque c’è da dire che forse questo film non lo avrei mai fatto in pellicola, ci sarebbero voluti tempi più lunghi, risorse economiche maggiori. Perciò forse la coesistenza che diceva Josef è la cosa migliore.
Ti senti un documentarista in questi ultimi anni di carriera?
Il documentario è un viaggio in un mondo nuovo per me, anche se ho iniziato col documentario. Credo sia veramente un viaggio, qualsiasi documentario, se ti metti nell’ottica giusta, nell’umiltà giusta di fronte al materiale che hai di fronte, diventa un viaggio importante di scoperta, in cui impari sempre qualcosa. Con questo film ho cercato di riportare da questo viaggio anche l’emozione che ho provato nell’incontro, nella conoscenza con loro e credo che questo sia il compito di un regista. Il mondo del documentario è vastissimo, oramai ci sono documentari che corrono sulla linea della finzione o altri che sono solo finzione, io credo invece che debba essere aderente alla realtà che abbiamo davanti, ed è quello che ho cercato a fare con questo piccolo film, soprattutto grazie ad Alberto e Josef.
da Bologna, Claudio Casazza