L’idea di star system starebbe a indicare quella strana congiuntura socio-culturale per cui al solo nominare una determinata persona (che la nomina sia orale o scritta non cambia molto) abbiamo un aumento indiscriminato del pubblico. Poco importa che il contesto in cui si trova quel nome sia esteticamente (ma non solo) bello, o anche solo sufficiente: la presenza di quell’elemento, di quell’attore o di quella attrice, comporta per forza di cose un completo accecamento della qualità intrinseca dell’opera in cui la persona si trova momentaneamente a ricoprire un ruolo (principale o da coprotagonista, nel numero quasi assoluto dei casi), per cui non si guarda un film perché la critica è positiva, perché lo sceneggiatore ha sempre dato prova di bravura strutturale, o perché il regista è stato in grado di inanellare una serie di opere sempre impeccabili; si guarda e si gode del prodotto solo perché ci sono o lui o lei (ma, in alcuni momenti, sia lui che lei), per la sicurezza che danno come feticci di una idolatria che sfocia dalla metafora religiosa a quella del culto.
La scelta di dedicare il proprio tempo come giornalista a Marlon Brando, da parte di Truman Capote, rientra allora in quel contesto storico preciso dove ancora lo star system aveva senso di esistere. Può risultare strano in quella che è la nostra bolla temporale (e culturale) che una persona dello spettacolo fosse in grado di muovere masse non indifferenti di pubblico; siamo in parte abituati a qualcosa del genere, è vero, al sentirci attratti verso un viso famoso piuttosto che a un altro, ma la quantificazione effettiva, reale, di un tale evento legato al mondo cinematografico ci spiazzerebbe, facendoci pensare a come ciò sia stato possibile, incapaci forse di fare una comparazione con quelle icone (forse meno talentuose) che sponsorizzano prodotti sui loro canali in rete. Avvicinarsi a Brando significava avvicinarsi a una icona di portata inimmaginabile, una specie di incontro con quello che era ed è un mondo a parte, slegato dalle lamentele e dalle piccole gioie di tutti i giorni. L’ordinario, insomma, viene messo al bando.
La visione che Capote dà del Duca, allora, catturato in un momento di riposo durante le riprese di Syonara, è una visione che si insinua nelle crepe, nei punti di fuga non tanto di un uomo che deve mantenere una sua personalità da culto, quanto di una persona che, nel contesto che gli è concesso di avere, si può permettere di essere se stesso. Non è un Marlon Brando fuori dagli schemi, un Brando che lascia cadere una coltre di mistero o di divinità della quale sembra doversi far scudo. Al contrario, il Brando che troviamo nel saggio di Capote è una persona reale, umana, con i suoi difetti e con i suoi pregi, senza che si scada né nell’inammissibile (le scoperte dei giornali che fanno dei segreti delle celebrità il loro pane quotidiano, da dare a una schiera di pubblico incline allo stupore) né nell’intaccabile (la teorica infallibilità delle star, una teocrazia materiale che pone determinate persone al di sopra di qualsiasi giudizio).
Capote sembra quasi incapace di fare domande, una incapacità che è voluta, come se ci si aspettasse che a parlare sia l’altro e che la nostra presenza abbia come unico scopo far partire la serie di frasi che vengono pronunciate in forma libera. Brando parla, Capote ascolta, prende appunti, rielabora non nel contenuto ma nella forma, nella struttura, per dare a quell’incontro l’architettura stilistica del saggio o del racconto (confessione?) tipica del mondo della carta stampata. Si apre così, per il lettore di adesso (di qualsiasi adesso, slegati come siamo e come saremo dagli anni di stesura del libro), una fessura attraverso cui vedere doppiamente il passato: da una parte la penetrazione nella vita di Brando, nel suo “dominio”, nella sua realtà (di cui, forse, neppure lui era del tutto conscio), e dall’altra l’avvicinamento a un mondo che non esiste più e che, se dovesse ripetersi, non avrebbe la stessa forma di quegli anni ‘40 e ‘50, dove lo star system non era solo un prodotto culturale da seguire, ma un vero e proprio meccanismo con cui dover fare i conti o su cui era possibile poggiare le fondamenta del proprio film.
The Duke in his Domain, Truman Capote, 2018, Penguin Classics (prima pubblicazione, 1957, nel New Yorker)
Il Duca nel suo dominio. Intervista a Marlon Brando, Truman Capote, 2004, Mondadori (trad. Pier Francesco Paolini)
Guido Negretti