Il 26 aprile 1986 in Ucraina accadde qualcosa. Qualcosa di cui si è vociferato molto, ma si è parlato poco. Una disgrazia, si diceva. Un complotto, ci dice Fedor Alexandrovich. Non sarebbe stata una fatalità, un sommarsi di inadempienze o leggerezze; non sarebbe stato l’errore umano: la strage di Chernobyl, dice Fedor, è stata voluta. E da qualcuno di ben identificabile, per uno scopo ben preciso. Ce lo racconta Chad Gracia, con un documentario al quadrato, un documentario nel documentario, quasi composto a quattro mani con lo stesso Fedor, autore di molte delle riprese utilizzate da Gracia, ma anche soggetto principale del documentario. Perché Fedor, oltre che regista, è un sopravvissuto, che ormai da anni va in cerca di verità, di risposte, ma soprattutto di coraggio. Un coraggio che manca ai suoi intervistati, un coraggio che è stato ucciso molto tempo prima dal terrore sovietico e che non ha mai più trovato la forza di riemergere, tanto meno davanti a telecamere e macchine da presa. È questo che Fedor vuole dirci: che, al di là della sua teoria complottista, al di là del Russian Woodpecker (titolo originale del film) e di quel che ci sta dietro, al di là di Vasily Shamshin e della Duga 3, al di là di quel che si vuole dire o dimostrare, il problema è ancora, innanzitutto, quello di trovare il coraggio di dire, di parlare, e di non aver paura di farlo. Se infatti tutte le interviste di testimonianza non risparmiano dettagli relativi a quei primi giorni in cui ci si recava tutti insieme al ponte per guardare più da vicino un fiabesco vapore rosa levarsi dal reattore, le reticenze si fanno largo non appena si tratta di puntare il dito o anche solo di ammettere un sospetto. Secondo Fedor, la paura non è mai passata, e questo perché non è mai scomparsa la minaccia. Anzi, è questa stessa minaccia che si annida con malcelata discrezione dietro la guerriglia degli ultimi anni. Una minaccia contro la quale, nel raduno di piazza che chiude il film, si pronuncia Fedor con toni che non lasciano spazio a dubbi o tentennamenti. Senza dubbi né tentennamenti: questo, potremmo dire, il carattere generale dell’intero documentario.
Netto, deciso, reciso. Fin troppo. Interessante il tema, interessanti le fonti, interessante l’indagine condotta da Fedor; forse un po’ eccessive ed eccessivamente tranchant le conclusioni. Un prodotto rischioso per chi dovesse approcciare il tema per la prima volta; un’alternativa intrigante per chi conosce i fatti e, come il protagonista del film, vorrebbe saperne di più. Forse la sensazione di eccesso è data anche dalla teatralità del personaggio e della sua azione: sassi lanciati contro sagome di vetro che fungono da capro espiatorio, retorica enfatica e senza filtri, da corteo di protesta, corpi nudi ricoperti di pellicola trasparente che camminano su montagne di maschere a gas, e così via.
Soluzioni che stridono un po’ con il taglio cronistico del documentario e che troppo spesso sembrano inseguire le velleità artistiche del protagonista più che obbedire a scelte registiche vere e proprie (per esempio quella, efficace ma scontata, di muoversi nel tempo della storia narrata attraverso un sintonizzatore radiofonico “un po’ speciale”). Come se, ogni tanto, questo pezzo a quattro mani denunciasse la propria doppia paternità e ne soffrisse. Ma forse la seconda voce, quella un po’ matta e senza freni, è necessaria a far emergere l’aspetto più propriamente paranoico della tesi proposta, al quale, in caso contrario, si sarebbe dovuto rinunciare.
Monica Cristini
Il complotto di Chernobyl
Regia e sceneggiatura: Chad Gracia. Fotografia: Artem Ryzhkov. Montaggio: Chad Garcia, Devin Tanchum. Origine: GB/USA/Ucraina, 2016. Durata: 80′.