Sono tante le sezioni che hanno popolato queste giornate internazionali perché tanti sono i volti che hanno popolato il novecento, e tanti i modi di interpretarli (naturalmente quasi nessuno parlava italiano: gli italiani sono al mare ad abbronzarsi la pancia, ancora informicoliti dalla consapevolezza di aver perso i mondiali, e la settima arte resta appannaggio di studiosi stranieri ed esperti filologi della pellicola). Non c’è da stupirsi che la figura di Charlie Chaplin, padrino putativo della rassegna, abbia allora inaugurato una sezione specificamente dedicata alla propaganda antihitleriana: da un lato una serie di cortometraggi stalinisti impegolati in una stranissima retorica del grottesco, a tratti indigesta, a tratti di un divertimento quasi infantilmente compiaciuto, dall’altro la riscoperta di un capolavoro tedesco di metà anni cinquanta: Der Letze Akt di Georg Wilhelm Pabst, dedicato agli ultimi giorni trascorsi dallo spietato dittatore nel Fuehrerbunker e anticipatore di quell’altro straordinario lavoro del contemporaneo che è Der Untergang (2004) di Oliver Hirschbiegel. Immaginate tutto l’armamentario espressionista, chiaroscuro contrastato, fotografia ombratile, recitazione straniante, che incontra la disperazione artaudiana della storia in un musical da fine impero: il Reich nei suoi ultimi giorni di vita, intrappolato tra le mani di generali folli e aguzzini in preda ad allucinazioni mistiche, una strepitosa danza dei morti inscenata con quasi vent’anni di anticipo sulla Cavani. Anche se nessuno se n’è accorto. È qualcosa di simile che si respira in un altro film della nouvelle vague polacca, The Saragossa Manuscript (1964) di Wojciech Has, un gotico tratto dalla letteratura francese, a cavallo tra orrore, stregoneria e ossessioni la cui struttura a scatola cinese inanella una serie di racconti raccapriccianti, macabre immagini di cadaveri impiccati, diavolesse seducenti e corpi imputriditi dagli scalpi liquefatti. Mica poco per un paese che gravitava nel pieno dell’orbita sovietica, e che riusciva a spaventare con la descrizione di orrori cinematografici forse sottili metafore di quelli (irrappresentabili) della politica.
Ma è sulla grande crisi del muto che Il Cinema Ritrovato ha concentrato la propria attenzione, sul modo in cui la settima arte ha giocoforza rinunciato alla musica per farsi parola, e sul rapido processo di rinnovamento linguistico, dalla melodia al suono, dalla ballata al rumore. La riscoperta di William Wellman è stata fondamentale, soprattutto grazie a un precocissimo noir parlato, Midnight Mary (1933) di appena un anno successivo al ben più noto Scarface, mentre il Giappone ha avuto la sua quota di rappresentanza con alcune commedie di impronta realista della Shochiku. Ma non preoccupatevi, i film muti propriamente detti non si sono fatti attendere, finendo per costituire forse la sezione più importante di queste febbrili giornate di riscoperta festivaliera, con alcuni pianisti internazionalmente conosciuti come John Sweeney, Maud Nelissen e l’italiano Antonio Coppola. Il grande evento, forse il più importante della kermesse, è stato però presentato in Piazza Maggiore il primo luglio, in occasione dei festeggiamenti per il cinquantennio di vita dell’Oesterreichisches Filmmuseum: la proiezione di The Merry Widow, La vedova allegra (1924-1925), di Erich von Stroheim con accompagnamento musicale eseguito dall’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna sulla partitura originale di Franz Léhar. Una storia, quella del regista viennese, prima osteggiato, quindi maledetto, infine riscoperto e amato dall’odierno pubblico di cinefili, che in realtà è più simile a un grandioso conte philosophique che a un raffinato pezzo di cinema: come sempre i suoi personaggi non raffigurano che uno spaccato dell’avidità umana, della corruzione sessuale e dell’istintiva necessità di gabbare il prossimo.
Per chi invece amasse le storie più leggere, fatte di pettegolezzi, futilità, chiacchiere da sala da ballo, Why Be Good (1929) di William A. Seiter è l’ideale per immergersi in un’epoca ormai in procinto di concludersi. Non stiamo parlando soltanto del muto (la soundtrack di questo film, musica ed effetti sonori, è stata registrata con il sistema Vitaphone) ma dei ruggenti anni venti sull’orlo del baratro, con la modernità dei grattacieli, delle strade affollate di automobili, le capigliature, i vestiti alla moda, le abitudini libertine di una generazione che in Italia avrebbe al contrario continuato a zappare la terra per decenni. La storia del cinema è innanzitutto storia della storia, o antropologia dei costumi, incursione seria o scanzonata nei processi mentali, umani e produttivi dell’individuo. Proprio quel che succede in The Lady from Shangai (1947) di Orson Welles, proiettato in una splendida edizione originale sottotitolata sotto le stelle della piazza: un film che da solo ha fatto rivivere tutta la magica crudeltà del noir dei tempi andati, che poi altro non è che l’insondabile follia dell’anima umana.
Approfondimento: dal feuilleton di Freda al musicarello polacco.
Strani accostamenti, in questa ventottesima edizione del festival, cinematograficamente asimmetrici, esteticamente complementari, strutturalmente continuativi. È proprio per la magica alchimia della differenza che la dimenticata popolarità di Riccardo Freda convive con quella (altrettanto dimenticata, rimossa, cancellata dalla storia) del CinemaScope musicale polacco, a sua volta legato a doppio filo alle operette propagandistiche sovietiche. Tutte cose eterogenee, mescolate tra loro e tra loro straordinariamente frizionanti, eppure tenute strette da un minimo comune denominatore: il desiderio di un cambiamento, la volontà forse inconsapevole per Freda di combattere quel cinema impegnato, autoriale e neorealista che detestava con tutto se stesso, e quella ancora più pervicace di un mestierante sconosciuto come Stanisław Bareja di superare il cinema di regime con la frivolezza musicarella del suo Adventure with a Song (1968). Dall’Italia del dopoguerra, non più quella di De Sica o De Santis, ma quella di Aquila nera (1946), Beatrice Cenci (1956) e Maciste all’inferno (1962), all’est socialista e proletario in bilico tra la propaganda di Lenin in Poland (1965) e le compiaciutissime incursioni nella cultura di massa. Non c’è molta differenza tra un Freda nostrano, calligrafico e psichedelico al contempo, ottocentesco e iperrealista senza logica apparente, e un Bareja commediografo e casinaro che si divertiva con le paillette anziché con la costumistica d’epoca.
L’obbligo morale per ogni cinefilo, soprattutto per gli americani che per ragioni distributive sembra non siano mai riusciti ad acchiappare Freda oltre i confini nazionali, è quello di recuperare almeno l’appena citato Maciste, remake, come spesso accadeva per questo geniale mestierante, di un’omonima pellicola del muto. Cosa c’entri Maciste, interpretato dall’italianissimo Kirk Morris, con le streghe, i castelli di pietra e i roghi cinquecenteschi che aprono il film, nessuno lo sa spiegare. Non che importi, la bellezza del cinema è anche questo: strappare una risata al pubblico boccalone e forse un po’ ignorantotto che andava al cinematografo senza aver mai sentito parlare di Cabiria (proiettato, tra l’altro, al Teatro Comunale), e che invece si dilettava con zinne e canini d’oltremanica; quelli della Hammer e dell’Amicus per intenderci, e che Freda contribuirà a sdoganare in patria grazie a I vampiri (1957), il primo gotico italiano con Gianna Maria Canale nella parte di un’ammaliante creatura che invecchia se privata di sangue umano.
Freda puntava all’intrattenimento puro, partiva dalla tradizione feuilletonistica per disarmare le attese del pubblico con colori, chiazze di luce, personaggi al limite dell’avanguardia più sboccata; Bareja, in Polonia, rubava a man bassa le coreografie di zio Sam, le cannibalizzava, le trasformava in un’apoteosi del pop con falce e martello nascoste nel dietro le quinte, gente che cantava, ballava e si arrampicava sui muri sgambettando in numeri da favola più che da circo. Freda rifaceva la storia della letteratura, a modo suo naturalmente, mentre Bareja strizzava l’occhio a Godard ma privandolo dell’ingombrante sottotesto politico. La differenza tra un Maciste che appare a cavallo nel mezzo di un borgo medievale abitato da brutte fattucchiere e quella di una Pola Raska che canta di un asino che aveva due mangiatoie è nell’occhio di chi guarda. Anzi, è nel come l’occhio guarda, quello stesso occhio che nel primo caso intesse una fuga dal vero basata su accostamenti fuori di zucca, nel secondo sogna un occidente all’apparenza così vicino ma in realtà talmente lontano da trasfigurarsi in una fantastica terra dell’oro.
Marco Marchetti