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Il cinema di Leo McCarey dopo la retrospettiva a Locarno

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Dalla comica alla commedia, dalla risata immediata e grossa a quella più raffinata e magari intellettuale. Fino ad approdare a un melodramma capace di leggerezza. È il cinema Leo McCarey cui il recente 71° Festival di Locarno, l’ultimo con Carlo Chatrian direttore, ha dedicato la sua consueta e imprescindibile retrospettiva. Un omaggio al muto e un ritorno ai fondamentali del cinema, a conciliare le due anime della kermesse ticinese, quella cinefila e quella popolare. Un’occasione importante per rivedere un regista americano (nato nel 1898 e morto nel 1969) il cui nome magari non è notissimo al grande pubblico, ma ha inciso a fondo sul modo in cui ridiamo, che sia nel genere comico o nella commedia. Capace di inventare velocemente o improvvisare gag, Leo McCarey esordì dietro la macchina da presa a metà anni ’20, dirigendo decine di corti comici negli anni ’20 scritti, diretti o supervisionati negli Hal Roach Studios, con Charley Chase, Max Davidson e l’indimenticabile coppia Stan Laurel e Oliver Hardy, della quale fu tra i creatori.
Regista di 24 lungometraggi, da The Sophomore del 1929 a Satan Never Sleeps del 1962, diresse il capolavoro La guerra lampo dei fratelli Marx, vinse due Oscar per L’orribile verità (nel quale consacrò Cary Grant) e La mia via. McCarey fece della direzione degli attori, il tempismo delle gag e l’irriverenza le sue doti maggiori. Le vicende matrimoniali, come fonte inesauribile di situazioni comiche, ma anche come modo per indagare gli esseri umani e i loro comportamenti, furono tra i suoi terreni preferiti. Più volte si occupò, direttamente o indirettamente, di politica o attualità, in chiave spesso di commedia ma sempre efficace e pungente, su posizioni apertamente progressiste.

Liberty
Liberty

In Piazza Grande è stato proiettato il cortometraggio Liberty del 1929, con accompagnamento musicale dal vivo di Zeno Gabaglio e Brian Quinn, una delle perle del periodo Laurel e Hardy. Una comica che tiene fede al titolo, anarchica e divertente, con i due attori nei panni di evasi che in tutta fretta si devono mettere i vestiti civili, ma se li scambiano. Nel cercare il modo di indossare i calzoni giusti, incappano in un sacco di ostacoli e incidenti, compresa l’aragosta nei pantaloni di Laurel. Per arrivare alla comicissima scena sul grattacielo in costruzione, alla Harold Lloyd e prima di King Kong.
Nel gruppo di corti con Laurel e Hardy anche Wrong Again – Noi sbagliamo (1929). I due lavorano in un maneggio, ma confondono il nome del cavallo Blue Boy con quello di un quadro rubato e vogliono restituirlo al proprietario in cambio della ricompensa. Faranno naturalmente guai, ma tra equivoci e fraintendimenti si ride parecchio. Sono già definite la faciloneria di Stan e l’imbarazzo ingenuo di Oliver, mentre si citano i Lumière con la gag del tubo dell’acqua. We Faw Down (1928) è una comica classica di mariti e mogli bugiardi o gelosi, torte in faccia, equivoci, vestiti che si bagnano e si scambiano.
Ancora situazioni da matrimoni in Should Married Men Go Home (1929), diretto con James Parrott. È domenica, Oliver ha deciso di restare a casa con la moglie, quando arriva Stan con l’intenzione di andare a giocare a golf. Prima la coppia si nasconde per non farsi trovare, poi si tradisce (la scena nella finestra anticipa quella dello “specchio” dei fratelli Marx) e fanno entrare l’ospite. I due uomini cominciano a fare disastri, finché la moglie li manda fuori e sarà l’occasione per andare al campo di golf. Anche là le gag si sprecano, dal fingersi banchieri con le donne, alla partita nel fango, al tipo con il parrucchino.
Tra i primissimi corti di McCarey, da ricordare almeno il gioiellino Crazy Like A Fox (1926). Un padre vuole far sposare alla figlia il figlio di un amico. La ragazza, non conoscendo il giovane, rifiuta il matrimonio combinato e vuole partire in treno per Philadelphia. In stazione scambia però la valigia con un impetuoso passeggero in arrivo, uno che litiga con governatore repubblicano Harrison: “allora sono un democratico” gli ribatte secco. I due si incontrano e si innamorano senza saperlo, innescando una lunga serie di gag. La trama è semplice ed è alla base della commedia sentimentale degli equivoci, ma la resa è efficacissima, come l’aspetto sovversivo di mettere in ridicolo il potere e l’attenzione alle questioni delle discriminazioni razziali. McCarey mostra subito il suo spiccato lato comico sentimentale.

Duck Soup
Duck Soup

Tra i primi lungometraggi c’è Indiscreet (1931), protagonista l’affascinante e decisa signorina Geraldine Gerry Trent, che a capodanno lascia con decisione il fidanzato Jim Woodward che la vorrebbe sposare. Poco dopo conosce uno scrittore, Anthony Blake, e si invaghisce di lui. Tempo dopo torna la sorella Joan che le presenta il suo nuovo uomo, proprio Jim Woodward. Una commedia brillante, nella quale si sente il respiro del muto, anche nelle trovate e i disastri che si susseguono. Il meglio è quando c’è in scena Gloria Swanson, in uno dei suoi primi film parlati, ma anche uno degli ultimi prima del ritiro. La Swanson, tagliente e vezzosa, seduce tutti e spadroneggia: suona il piano e canta più canzoni. È anche uno dei primi film con musiche di Alfred Newman e la fotografia è del grande Gregg Toland. È tratto dal libro Obey That Impulse, che la signorina Trent tiene spesso in mano nella prima parte del film. Il finale sulla nave si collega all’inizio di “Un amore grande”.
Uno dei film più belli di Leo McCarey, e forse il più noto con l’interpretazione dei geniali fratelli Groucho, Harpo, Chico e Zeppo Marx, è La guerra lampo dei fratelli Marx – Duck Soup (1933). Una scatenata e irresistibile satira politica e antimilitarista, diventata un classico che ha ispirato molti, Charlie Chaplin compreso per Il grande dittatore. La ricca vedova Teasdale nomina lo strampalato Rufus Firefly (del quale è innamorata) come capo del governo di Freedonia per risolvere una grave crisi. Sarà l’improvvisazione al potere: i suoi modi di fare sprezzanti e insensati e l’eloquio inarrestabile e contraddittorio, provocheranno la guerra con lo stato di Sylvania, combattuta in modo assurdo (“non c’è tempo per le trincee, le compreremo già fatte” ), una parodia del Primo conflitto mondiale. È il trionfo del nonsense, con equivoci, paradossi, scambi di persona, numeri da commedia musicale e gag memorabili come quella geniale dello specchio. Tanti i momenti irresistibili: la lunga e ripetuta gag delle due spie incapaci Chicolini e Pink con il venditore di limonate; Bob (Zeppo) autista del sidecar che lascia regolarmente appiedato Firefly; l’irresistibile Pink che non parla ma ha trovate “infantili” e spiazzanti (Rufus: “scommetto che non hai una foto di mio nonno”, lui annuisce e gli mostra il sedere); la scena in cui i tre Marx (tutti travestiti da Rufus) vanno dalla signora per prendere il piano d’azione mandandola in confusione; l’esilarante processo a Chicolini. Il titolo si deve alla scena iniziale, con le anatre vive nell’acqua di una pentola sul fuoco. La guerra lampo è una pellicola attuale come non mai: in Firefly si riconoscono i tratti di vari capi di stato e politici di oggi, da Donald Trump nel suo modo di impartire ordini improvvisati a qualcuno di casa nostra.

Il maggiordomo
Il maggiordomo

Charles Laughton, che in quegli anni viveva un intenso periodo di gloria dopo essersi affermato al cinema con Le sei mogli di Enrico VIII (1933), è il protagonista de Il maggiordomo (1935). Siamo a Parigi nel 1908 e il lord Burnstead cede il suo maggiordomo Ruggles a un coppia di amici americani ambiziosi, i Floud. Se la moglie Effie vuole entrare in società, il marito Egbert è un tipo eccentrico, che si veste solo a quadri, prende ordini ma non fa mai come la moglie vorrebbe. “Faccio quello che vuole lei, ma solo quando lo voglio io” ripete il marito, che non perderebbe occasione per stare con gli amici a bere. Quando la coppia torna in America, in una cittadina nel West, le cose si complicano perché l’abitudine del bizzarro Floud di chiamare colonnello il maggiordomo fa sì che molti lo prendano per un alto ufficiale inglese, che finisca sul giornale e diventi una piccola celebrità. Quando si presenta il conte Burnstead per riprendersi il domestico, le cose si complicano, mentre Ruggles si è abituato alla nuova veste. Si è chi si è o chi credono gli altri?
Una commedia degli equivoci molto rodata (fu nominata agli Oscar) e dalla regia brillante. Si tratta di un altro film abbastanza sovversivo, a favore dell’eguaglianza e in un certo senso è anti-schiavista, anche se non ci sono neri o schiavi. Ruggles è cresciuto come domestico, in una famiglia di domestici, è servile e abituato a essere sottoposto a qualcuno, fatica a stare alla pari degli altri, ma nel corso della storia si affranca e impara a essere libero e prendersi iniziative. Il protagonista conosce tutto a memoria il celebre discorso di Lincoln a Gettysburg di “Tutti gli uomini sono stati creati uguali” e lo declama, mentre il film insiste sull’uguaglianza negli Usa.

La via Lattea
La via Lattea

Arriva poi La via lattea (1936) nel quale dirige il grande Harold Lloyd in uno dei suoi pochissimi film parlati. Siamo nella Latteria Sunflower, dove si tiene una convention aziendale per incentivare i migliori venditori. Il goffo lattaio Burleigh Sullivan (Lloyd) continua a starnutire e crea un elemento di disturbo. Quando più tardi va a prendere la sorella Mae, corteggiata insistentemente da due uomini, innesca involontariamente una rissa e il minuscolo e pacifico Burleigh, finisce sui giornali per aver colpito un campione di pugilato dei medi e diventa una celebrità. Un abile manager cerca prima di difendere la reputazione del suo protetto, poi intuisce la possibilità di sfruttare la popolarità del lattaio. Questi si lascerà convincere per poter curare la vecchia cavalla che tira il carretto del latte. È una commedia non scatenatissima, ma godibile con momenti molto comici, costellata da una serie di equivoci, spesso nella tradizione del muto, e Lloyd è ancora in forma. Gli incontri di pugilato si vedono poco, sono tutti venduti o con esiti fortuiti: Burleigh si scansa sempre dai colpi, ripendendo il Chaplin pugile di The Champion.

L'orribile verità
L’orribile verità

Uno dei vertici della carriera è la scoppiettante commedia matrimoniale L’orribile verità (1937) con Cary Grant e Irene Dunne, una screwball caposaldo del genere. Jerry Warriner è sposato con Lucy e ha coperto una scappatella con un viaggio in Florida, così si fa una lampada per abbronzarsi e non suscitare sospetti. La moglie si ripresenta con il signor Duval, suo maestro di canto, dopo una notte fuori, e crede poco alle scuse del marito. Tra un equivoco l’altro, Jerry prova a suggerire sospetti su di lei e il goffo musicista, così la coppia litiga e decide di divorziare. Poi Lucy si fidanza con Daniel Leeson, un imprenditore dell’Oklahoma, e si ritrova in mezzo a tre uomini, con i due coniugi che, mentre aspettano che il divorzio sia ufficiale, fanno di tutto per mandare all’aria i rispettivi nuovi matrimoni e riconquistarsi.
L’orribile verità costituisce una gara di bravura tra gli attori ed è simpaticissimo il cane conteso Mr. Smith, che gioca anche a nascondino. Parecchie le scene da ricordare. La telefonata di Lucy all’anziano avvocato, che la calma e le dice che “il matrimonio è una bella cosa”, proprio mentre litiga con la moglie che lo disturba durante la telefonata. Nel corso dell’udienza di divorzio, la sfida tra i coniugi per conquistarsi i favori del cane. Oppure la gonna della cantante che svolazza sollevata dall’aria molto prima di Marilyn Monroe. Sull’auto dei Warriner c’era già l’autoradio, che offre l’occasione per un gag con il dispositivo che non si spegne.
La Dunne torna nel meraviglioso e successivo Un grande amore (1939), al fianco di Charles Boyer. L’aspirante artista Michel Marnet è un celebre donnaiolo. È in viaggio in nave diretto a New York per sposarsi e tutti ne parlano e lo aspettano. Intanto, a bordo, gli consegnano un telegramma da un’altra donna che, portato dal vento, finisce nelle mani dell’affascinante Terry McKay. Nel messaggio si ricorda “una tempesta sul lago di Como” (la sceneggiatura è firmata anche da Delmer Daves, che in Italia, tra Milano e lago di Garda, girò Accadde un’estate). Tra i due scatta un interesse, si frequentano, ma con distanza. Quando la nave sosta a Madeira, Michel va a trovare la nonna e Terry lo accompagna. Le due donne suonano e cantano l’Elisir d’amore e scatta una magia che li avvicinerà molto. All’arrivo in città, si danno appuntamento sei mesi dopo all’Empire State Building (cita Insonnia d’amore), la cosa “più vicina al cielo” che ci sia. Le scene degli sbarchi dei due, accolti dai rispettivi fidanzati, sono perfidamente identiche. La donna non potrà presentarsi all’appuntamento perché investita da un’auto, mentre si affretta, ma si incontrano per caso a un concerto. Una commedia con un forte innesto di melodramma, come sempre più nell’avanzare della carriera del regista, precisa come un orologio. La Dunne è meravigliosa e memorabile la battuta: “le cose che ci piacciono o sono illegali o immorali o fanno ingrassare”. Tra le scene più belle, quelle della mano e del primo bacio.

Fuggiamo insieme
Fuggiamo insieme

Al periodo bellico appartiene Fuggiamo insieme (1942) con Cary Grant e Ginger Rogers, film dichiaratamente di denuncia del nazismo, fin dall’inquietante inizio con l’orologio con le lancette a svastica per far capire che il tempo per affrontare e combattere Hitler sta stringendo. Siamo a Vienna nel 1938 e l’americana Katherine si prepara a sposare il barone Von Luben. Il giornalista Patrick O’ Toole vuole rivelare i legami tra l’uomo e Adolf Hitler, così contatta la donna per strapparle informazioni e si finge sarto per recarsi a casa sua e incontrarla. Lei aiuta la cameriera ebrea a scappare con i figli da Varsavia. In ogni Paese dove Von Luben si sposta – Cecoslovacchia, Polonia, Norvegia (ripetuti i riferimenti a Quisling), Olanda, Belgio e Francia – arrivano subito le truppe naziste. Una commedia sentimentale con una lunga parentesi drammatica, nella quale spicca la scena delle misure dei vestiti.

La mia via
La mia via

McCarey rivince l’Oscar con La mia via (1945), film finito nell’ombra e oggi forse invecchiato (il doppiaggio italiano appare insostenibile) con alcune parti un po’ lente. Al tempo era un perfetto film da statuetta, con la giusta dose di retorica, l’ottimismo e l’umanesimo post-bellico. Parte dal comico per virare sul melodrammatico, ma i temi erano e restano attuali: l’incontro tra diversi e l’accettazione, l’attenzione ai giovani e ai ragazzi, la fiducia, l’inclusione, il passaggio generazionale dal vecchio al nuovo, la solidarietà da parte di chi ha ricevuto e la voglia di ricostruire, come nel caso della chiesa dopo l’incendio. Padre Filippo è il vecchio priore, di origine irlandese, della chiesa di San Domenico a New York. È indebitato e ha bisogno di soldi quando si presenta un nuovo curato, padre Bonelli (Bing Crosby), di origine italiana, un tipo alla mano che gioca a baseball, non si fa problemi a indossare una felpa e riesce a stabilire un bel rapporto con i ragazzi. Uno è vecchio stile armato di sarcasmo, l’altro è sportivo e aperto, ma finiranno per incontrarsi. Di mezzo c’è anche la musica, Crosby suona e canta, crea un coro per togliere i giovani dalla strada e stringe amicizia con la cantante d’opera Gianna: lo stesso titolo del film deriva da una canzone scritta dal protagonista. McCarey cita una delle sue comiche, We Faw Down, nell’introdurre padre Bonelli, un tipo alla mano che si presenta in parrocchia in tuta perché per strada era stato bagnato da un mezzo del lavaggio strade mentre recuperava una palla da baseball che prima aveva rotto una finestra mentre giocava per strada con ragazzi. Giocando con i ragazzi del quartiere, era stato ingiustamente incolpato della rottura di una finestra, uno dei tanti equivoci iniziali.
Film anomalo nella carriera del regista è My Son John (1952), il suo più drammatico, ma anche tra i più belli. È la storia di una coppia anziana molto religiosa e patriottica che, dopo la partenza di due figli per la guerra, scopre che il terzo è una spia comunista. John è un giovane in carriera, che vive a Washington, è ben introdotto e in carriera. Come suggerisce il titolo, conta soprattutto il rapporto della madre con John: dialoghi tra i due sono intensi e drammatici, quasi psicanalitici, e lei arriva a chiedergli di giurare sulla Bibbia. Magistrale la confessione finale sotto forma di messaggio registrato: doveva fuggire a Lisbona, ma rinuncia ed è ucciso in un incidente simulato. Accusato al tempo di essere un film rozzamente anticomunista, oggi si rivela molto più sottile e ambiguo, quasi ad anticipare una ribellione dei figli contro i padri. Forse ci voleva un regista di questo tipo per nascondere sotto l’apparenza un giovane più positivo di quanto sembri. Non è un caso che nell’ufficio di John sia posta bene in vista un’immagine di Abraham Lincoln.

Un amore splendido
Un amore splendido

Nel 1957 McCarey, mosso dalla voglia di sfidare se stesso, rifà Un grande amore con Cary Grant e Debora Kerr carismatici e perfetti nei ruoli principali e un bel Cinemascope. Ne esce Un amore splendido, con un plot quasi identico e qualche attualizzazione: il rubacuori aspirante pittore Nicki Ferrante ricco rubacuori e la cantante Terry McKay si conoscono per caso sempre su un transatlantico per New York e sono fotografati e osservati da tutti e costretti a mantenere le distanze. La sosta dalla nonna di lui era invece più magica nell’originale. Naturalmente si ripete l’appuntamento mancato all’Empire State Building. Belli i dialoghi, per esempio c’è la celebre battuta: “Cosa rende la vita così difficile?”, “La gente”. Forse il regista non riesce a eguagliarsi, ma realizza un’altra grande commedia sentimentale che sconfina nel melò.
Il penultimo film, prima di Satan never sleeps del 1962, è Missili in giardino (1958) con Paul Newman, Joanne Woodward e Joan Collins. Una commedia sofisticata con un gusto per la slapstick, che oggi appare un po’ invecchiata nella confezione ma resta godibile e con più di un aspetto interessante, iniziando dal brillante Newman e dalle due interpreti. La prima parte sembra uno dei tanti intrecci matrimoniali del regista. Harry è un dinamico impiegato, sposato a Grace, molto impegnata nel sociale e parte di tutti i comitati cittadini. L’uomo non è insensibile al fascino della bella Angela. Il film prende una piega diversa quando in città si scopre che l’esercito deve fare una nuova installazione: per fermarla si costituisce un comitato presieduto dalla stessa Grace.
Il film funziona soprattutto per gli equivoci e il triangolo sentimentale (gli echi de L’orribile verità sono riconoscibili), ma anticipa anche molto: c’è il lancio di un uomo nello spazio, abbastanza vicino a come sarebbe accaduto più tardi, e anche la presenza della televisione nel raccontare la cronaca (anche se la parte del generale è un po’ inverosimile). C’è una satira acuta sui militari e anche sui comitati cittadini e non mancano altri riferimenti alla storia americana più o meno recente: si accenna alla Seconda guerra mondiale e a quella di Corea e c’è una rievocazione storica dello sbarco della Mayflower e dell’incontro con gli indiani.Anche qui sono presenti scene, come Harry appeso al lampadario della casa di Angela, che saranno riprese da molti. Bella anche la trovata, sfuttata in un paio di momenti, del “cinema immaginario” di Harry: l’uomo chiude gli occhi e immagina di vedere un film alla Lawrence d’Arabia.

Nicola Falcinella

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