Chi meglio di uno scandinavo potrebbe narrare l’epopea vichinga? Un tedesco, direte voi, cresciuto con le opere di Goethe e di Friedrich, un settentrionale ubriaco di romanticismo, un contemplatore di paesaggi bucolici, un inguaribile poeta del sublime ottocentesco. Oppure un inglese, con la sua Albione ammantata di brume, le coste frastagliate, le onde che si infrangono lungo i fiordi dell’estremo nord. Invece no. A dirigere questo curioso film di cappa e spada è stato niente meno che uno svizzero, tale Claudio Faeh, un artigiano della settima arte salito alla ribalta con opere in fin dei conti poco onorevoli quali L’uomo senza ombra 2 (2006) e l’action straight-to-video Sniper: Reloaded (2011). Da uno così non ci si aspetterebbe molto, eppure questo I vichinghi (errata traduzione del doverosamente pomposo Northmen – A Viking Saga) sorprende come un piccolo gioiello intagliato nel legno, un’argenteria in peltro o un centrotavola recuperato dal baule della nonna: non un lavoro di fine manifattura, niente di adatto alla casa di un collezionista, insomma una robetta dozzinale scovata al mercato delle pulci, che però riesce sempre a fare bella figura tra la foto del nonno defunto e un quadretto a tematica campestre. Sì, I vichinghi sta alla storia come L’ultimo dei Templari stava alla stregoneria, con la differenza che qua ci sono le battaglie mentre là c’era la zazzera biondiccia di Nicolas Cage.
La vicenda segue le avventure di un manipolo di vichinghi che fa naufragio al largo della Scozia, finisce su una spiaggia disabitata, scala una scogliera di trecento metri che nessun essere umano più intelligente di un paguro riuscirebbe a scalare senza la paura di fracassarsi le ossa, e infine dà legnate, pugni e bastonate a tutto andare a una banda di cavalieri cristiani. Il senso è che i vichinghi vogliono far bottino, ma siccome non trovano nulla su cui mettere le mani, tranne le gole che sgozzano, i corpi che trafiggono, le teste che spaccano, rapiscono la bella figlia del re (Charlie Murphy) per chiedere un lauto riscatto. In realtà i nostri navigatori degli oceani se la vorrebbero ingroppare senza troppi cerimoniali, ma per fortuna c’è quell’anima pia di Bjorn (James Norton) che sventola la ferula e ricorda ai focosi compagni che la donzella deve tornare illibata a casa di papà: altrimenti niente soldi. Il re scatena presto l’offensiva, e così i vichinghi senza navi e imbarcazioni, armati soltanto di spade, spavalderia e coraggio, scappano da un’orda di feroci guerrieri cristiani. Un monaco conciato come Confucio, uso al karate e altre nobilissime tecniche di difesa presumibilmente apprese presso il popolo dei Pitti (!?), passerà dalla loro parte, menando fendenti peggio che Bruce Lee. Infine arriva pure Johan Hegg, il frontman dei metallari svedesi Amon Amarth, e se ne combineranno di cotte e di crude.
Sappiamo tutti che i vichinghi (fonte: L’epopea dei vichinghi, Rudolf Poertner, 1972 Garzanti, Milano) erano un popolo di assassini, stupratori, selvaggi e senzadio che faceva terra bruciata di tutto. Un po’ come alcuni degli indiani d’America, prima che Balla coi lupi li rivalutasse, attraverso i Sioux. Tanto per dirne una, i ragazzini vichinghi a undici o dodici anni potevano ammazzare uno schiavo senza che nessuno dicesse nulla, e la pena più elevata per l’omicidio di un uomo libero era l’esilio di pochi anni. In effetti nel film di Faeh c’è molta di questa crudeltà, anche se la parte dei mostri la fanno i paladini della fede cristiana, subdoli, perversi e machiavellici all’inverosimile: per fortuna c’è abbastanza sangue da far passare in secondo piano le quisquilie filologiche, teste amputate, corpi squadernati, trappole degne di un cacciatore, e I vichinghi diverte senza annoiare, presentandosi come un film simpaticamente caciarone, dove la vince chi sbraita di più. Di primo acchito sembrerebbe un demerito all’estetica della pellicola, oltre che alla sua coerenza narrativa, alla consequenzialità storica; ma in fin dei conti tralasciare i modelli obbligati come Valhalla Rising o tutto il filone cinematografico di ambientazione medievale, le fonti storiografiche, la cultura dell’epoca, i rituali e i simboli, può anche diventare una studiatissima mossa di regia. Una moda, uno stile, un’affermazione dell’incultura più sofisticata. Manca totalmente l’incontro/scontro con l’etica cristiana, così come sfugge l’aspetto mitologico fiabesco che avrebbe potuto rendere questo film un piccolo capolavoro del fantasy. Che cos’è allora I vichinghi? Un action picchiaduro, un incrocio tra un fumetto e una revisione un po’ superficiale del periodo, uno spazio in cui la filosofia zen viene spacciata per misticismo cristiano e si combatte come nella versione low budget de Il signore degli anelli. Per farla breve, un film di mestiere. Se l’avesse diretto un italiano, si sarebbe detto un esploratore (degenere) dei generi. Proprio come i suoi improbabili vichinghi. E non è un’offesa, né per Faeh né per un ipotetico connazionale che trovasse i fondi per realizzare un microkolossal di questo livello.
Marco Marchetti
I vichinghi
Titolo originale: Northmen – A Viking Saga. Regista: Claudio Faeh. Soggetto e sceneggiatura: Bastian Zach, Matthias Bauer, Claudio Faeh, Adrian Jencik. Fotografia: Lorenzo Senatore. Montaggio: Adam Recht. Musica: Marcus Trump. Interpreti: James Norton, Ryan Kwanten, Charlie Murphy, Ed Skrein. Origine: Svizzera, Germania, Sud Africa. Anno: 2014. Durata: 97′.