Arte, provocazione, inganno, terrorismo, avanguardia e ancora di più. È tutto in un documentario sorprendente che lascia una rara sensazione di vera vertigine, Il complotto di Tirana di Manfredi Lucibello (il regista fiorentino di Non riattaccare con Barbara Ronchi e Claudio Santamaria) incluso nella sezione Freestyle arte della 19^ Festa del Cinema di Roma.
Al centro c’è un fatto accaduto nel 2001, quando il fotografo Oliviero Toscani avrebbe contattato Giancarlo Politi che stava organizzando la Biennale d’arte di Tirana. Un testo a firma di Toscani fu pubblicato sulla rivista Flash Art, lanciando quattro artisti completamente sconosciuti che sarebbero stati presentati nella capitale albanese: Hamid Piccardo (indicato come il fotografo di Bin Laden), il cuneese Carmelo Gavotta, lo slavo Dimitri Bioy e la nigeriana Bola Ecua. All’inaugurazione, il 14 settembre 2001, la sorpresa: non si presentò nessuno, un po’ per la paura di viaggiare conseguente agli attentati dei giorni precedenti, un po’ perché i quattro non esistevano e, soprattutto, il fotografo celebre per le campagne pubblicitarie era all’oscuro della cosa. Seguì una denuncia per sostituzione di persona, si risalì al computer da cui erano partite le mail, ma in sede penale fu decretata l’archiviazione del caso. Ora, Lucibello visita Toscani per farsi raccontare cosa accadde. Il regista, con uno stile da mockumentary, mescolando documentario e finzione (con Bebo Storti), costruisce un appassionante e sconcertante intrigo, finché ci si imbatte in un personaggio che sembra uscito da un film americano, dalle molteplici facce e vite, un trasformista dalle multiple attività artistiche, incredibile e misterioso, tanto che Il complotto di Tirana lascia aperti un sacco di quesiti. Costruito come un’inchiesta, con uno sviluppo da thriller, il film conduce nel mondo dell’arte contemporanea, a suscitare questioni sul valore delle opere, sul loro significato, sulla provocazione (“è la base dell’arte” afferma Toscani), sulla sperimentazione, sulle avanguardie, sul marketing o sui rapporti tra le diverse discipline. Un lavoro di grande fascino, originale, stimolantissimo e tutto da scoprire, da vedere.
Nelle pieghe di una Festa/Festival molto articolato, molto ricco di titoli e proposte e perennemente (o volutamente?) alla ricerca di un’identità riconoscibile (tra un Cannes a Roma, una rassegna di anteprime di prossime uscite, una panoramica di film che spariranno presto dal radar e una sagra dei film italiani pronti), si sono visti altri documentari interessanti, con l’arte in primo piano.
Va alla scoperta di un pittore famoso soprattutto per un quadro, Francesco Fei con Pellizza pittore da Volpedo posizionato sempre in Freestyle. Il fiorentino Fei, conosciuto per Onde (2005) e Mi chiedo quando ti manderò (2020) oltre che per le decine di videoclip e documentari quali La regina di Casetta o X sempre assenti, ha realizzato un film che sarà distribuito in sala da Nexo nel 2025, poi in onda su Sky Arte, sull’artista alessandrino Giuseppe Pellizza, noto con il nome del paese natale, cui restò sempre legato e con il quale firmava le sue opere. Si parte dal giugno 1907, quando il pittore si suicidò nel proprio studio, poco tempo dopo la morte della moglie Teresa. Da qui si procede a ritroso a scoprire un’esistenza appartata, di un talento nato in una famiglia di piccoli proprietari terrieri e rivelatosi precocemente. Il giovane Giuseppe frequentò l’Accademia di Brera, per poi soggiornare a Roma (che lo deluse), a Firenze (anche presso Giovanni Fattori) e a Bergamo (allievo di Cesare Tallone), per tornare a Volpedo dove aprì il laboratorio. Fei ricostruisce studi, esperienze, vicinanze artistiche, evoluzioni dello stile (come il simbolismo e l’approdo al divisionismo), temi ricorrenti (il sociale, la natura, il lavoro, gli animali), interessi politici (era socialista riformista, particolarmente sensibile all’equità) e le opere principali. Si arriva al celeberrimo Il quarto stato del 1901, preparato per anni, che in vita fu origine anche di acute delusioni. Acquistato dal Comune di Milano per la Gam nel 1921, l’enorme dipinto fu tenuto in deposito durante il fascismo, fino al dopoguerra e all’elezione del sindaco Antonio Greppi che lo fece esporre. C’è poi il rapporto epistolare con Giovanni Segantini (su cui Fei aveva realizzato il film Segantini – Ritorno alla natura, con Filippo Timi, nel 2016), incontrato a Milano in un’occasione. Il regista filma i luoghi, Volpedo e il fiume Curone, Milano (e il nuovo allestimento alla Galleria d’Arte Moderna), intervista studiosi di oggi, fa leggere diari e lettere a Fabrizio Bentivoglio e ricrea brevi scene di finzione ambientate oltre un secolo fa. Ne risulta un bel film, distante dai documentari d’arte in voga, più rigoroso e approfondito, meno enfatico, che fa conoscere davvero un pittore da scoprire nella sua totalità.
Tutt’altra atmosfera nel duro Estado de silencio del messicano Santiago Maza. Un documentario di impegno civile e teso, senza però trascurare la cura delle immagini, su giornalisti minacciati in Messico perché parlano delle persone scomparse, dei migranti uccisi e della violenza crescente. Professionisti che diventano testimoni e sono costretti a scegliere se rischiare la pelle continuando a lavorare come cronisti oppure andarsene all’estero o stare in silenzio. I racconti sono punteggiati dalle visioni di un inquietante fluido scuro che si diffonde e acuisce il senso di pericolo e minaccia.
Nicola Falcinella