Holy Spider, diretto da Ali Abbasi e premiato nel 2022 a Cannes per la miglior attrice, racconta una storia vera avvenuta tra il 2000 e il 2001 nella città santa di Mashhad, che ospita il mausoleo dell’Imam Reza, l’ottava guida spirituale nella gerarchia dei santi sciiti. Il santuario risale al IX secolo, oggi è visitato ogni anno da 25 milioni di pellegrini, sorgeva isolato mentre ora è circondato da grandi viali che lo collegano alla città moderna e ai suoi fatiscenti sobborghi.
L’Imam Reza morì martire sotto il regime della dinastia abbaside. Il culto del martirio tra i devoti pellegrini è da secoli particolarmente sentito a Mashhad e si è intensificato nell’ultimo quarto dello scorso millennio. Nel novembre 1978, infatti, la città fu oggetto di un pesante massacro perpetrato dai sostenitori armati dello Shah Mohammad Reza Palhavi, il sanguinario dittatore “laico” e “modernizzatore” sostenuto dagli Stati Uniti. Il tiranno fu rovesciato dalla rivoluzione islamica guidata dall’ayatollah Khomeyní, che instaurò nel nome di Allah un regime teocratico fondato sulla legge coranica, forse meno sanguinario ma decisamente più vessatorio del regime precedente, che aveva almeno il pregio di non essere oscurantista. La Guida Suprema – Ruhollah – è morta nel 1989, ma nessun religioso rigetta il suo spietato integralismo. Con i riti elettorali tipici delle democrature, i successori si contendono il potere tra un fondamentalista moderato e uno radicale.
Dalla nascita della Repubblica Islamica, a Mashhad è attiva una setta di veterani della rivoluzione contraddistinta da un vistoso anello. Alcuni di loro occupano posti chiave nella cerchia dei laici che affiancano il potere teocratico degli Imam, come giudici o ufficiali di polizia; altri svolgono lavori umili. Tutti sostengono la “polizia morale”, incubo dei civili che non osservano le norme del Corano, specie in una società fortemente maschilista e misogina, dove i genitori costringono le figlie a sposarsi al compimento dei 9 anni, dove sono poste sotto la schiavitù dei padri, dei fratelli e dei mariti, costrette ad indossare il simbolo della loro subordinazione, il chador, a non mostrare i capelli, a non truccarsi, a non fumare o bere in pubblico, spesso tenute ai margini, in presenza di ospiti maschi, all’interno dello stesso gruppo familiare. Le donne sono vittime silenziose di pestaggi domestici, o marchiate pubblicamente come peccatrici per quei comportamenti considerati non conformi in Iran e in genere in moltissimi paesi islamici, che invece per nostra fortuna noi orgogliosamente occidentali consideriamo del tutto innocenti ed extramorali. Come accade alla protagonista del film, se si presentano in un albergo sole sono guardate con sospetto proprio perché donne libere, indipendenti ed autonome; se accettano una sigaretta da un uomo in una stanza dove si trovano sole con lui, sono considerate “una che ci sta”, e il maschio si sente in dovere di provarci per confermare a se stesso la propria virilità.
La libertà di stampa, il pluralismo religioso, il rispetto per chi non pratica alcuna religione, lo spirito liberale e democratico che ammette il dissenso e la libertà di pensiero, l’eguaglianza tra i sessi o orientamenti “immorali” quali l’omosessualità sono proibiti. I social network sono pericolosi e minacciano l’ordine costituito. Si può finire condannati a morte per un nonnulla. La popolazione è divisa in due: chi vive nascostamente per proteggersi dalle persecuzioni terroristiche del potere religioso e dei suoi servitori laici; e i fondamentalisti che collaborano con il regime e lo sostengono apertamente. La servitù volontaria delle donne verso i maschi e dei collaborazionisti verso il governo è generalizzata. Il resto lo fa il terrore.
I fatti narrati in Holy Spider risalgono a oltre vent’anni fa, ma il totalitarismo teocratico non è mutato. Le ricchezze petrolifere del paese sono uno strumento permanente di ricatto. Il film non tocca questi mutamenti, ma trova la sua attualità nelle manifestazioni di dissenso e di protesta, soprattutto delle vittime principali della tirannide, le donne (una decina circa sono state giustiziate nel 2022).
Due sono i grandi protagonisti del film: Saeed, interpretato magistralmente da Mehdi Bajestani, e Rahimi, interpretata da Zar Amir Ebrahimi. Il primo, dall’aria per bene, è un muratore laborioso e un buon padre di famiglia, ma è afflitto da una psicosi ossessiva in cui l’intento moralizzatore si mescola al desiderio di morire da martire come molti suoi commilitoni nella rivoluzione khomeynista. La notte si dedica ad assassinare prostitute, 16 in meno di due anni. La seconda è una giornalista d’inchiesta coraggiosa, laica e non si fa intimorire dai poteri omertosi che proteggono la teocrazia. Nella sua indagine può contare, ma non fino in fondo, su un amico giornalista che è stato in contatto telefonico con il serial killer. Saeed ha bisogno di fare parlare di sé la stampa per costruirsi un alone di eroicità e di osservanza stretta della morale islamica per giustificare i propri crimini e per perdonarsi la “colpa” di non essere morto da martire. Quando si accorge che la stampa non parla più di lui, l’ossessione diventa un raptus irresistibile che svela altresì la perversione necrofila dell’uomo.
Il regista impone al suo lavoro un ritmo incalzante, degno di un thriller. Ogni nuovo delitto, eseguito con la medesima tecnica, si accompagna a ulteriori passi in avanti dell’inchiesta. Rahimi entra in contatto con una vittima (che come molte altre fa uso di droghe per sostenere il disgusto, le umiliazioni e le fatiche della prostituzione) e con la madre, che rinnega la figlia per avere disonorato la famiglia con i suoi comportamenti e non vuole apparire in pubblico per non screditarsi ulteriormente. Alla fine Rahimi decide, con l’aiuto e la protezione dell’amico giornalista, di rischiare il tutto per tutto per incontrare il killer e farlo arrestare dalla polizia. Il confronto fisico tra Rahimi e Saeed è emotivamente carico, forse troppo, ma la ragazza riesce a cavarsela e l’amico a chiamare la polizia. Il killer viene arrestato e processato. La popolazione solidarizza con lui, fino a manifestare sotto il carcere per la sua liberazione come eroe. La moglie appare più indecisa tra la solidarietà familista con il marito e il rancore verso di lui che ha distrutto la sua vita. Uscirà da questa indecisione con l’avvicinarsi del verdetto, quando l’anziana suocera si scaglia contro Saeed. Il figlio quattordicenne, al contrario, mitizza il padre e promette di portarne a termine il “lavoro” per ripulire dall’immoralità la città santa.
Durante il processo Saeed rifiuta di dichiararsi pazzo. Se pazzo è, lo è d’amore per Allah e per la tutela della religione. Nel finale emerge un conflitto tra le pressioni del governo di Teheran, che vuole chiudere il caso con una “giusta pena”, e la complicità con Saeed dei membri della setta dei veterani, che gli promettono una fuga. Il killer verrà risparmiato dalle cento frustate ma, dopo un momento di suspence, finirà impiccato.
L’addio tra Rahimi e il giornalista e il ritorno di lei in autobus verso Teheran sono un cedimento al melò. L’unica sovrabbondanza in un film asciutto, emozionante e vigoroso. Al regista Ali Abbasi va riconosciuto il merito di aver unito con sottigliezza, e senza le ridondanze delle denunce retoriche, il dramma politico e l’arretratezza culturale della società iraniana e l’immersione nella mente psicotica di un innamorato di Allah.
Eva Pugina
Holy Spider
Regia: Ali Abbasi. Sceneggiatura: Ali Abbasi, Afshin Kamran Bahrami. Fotografia: Nadim Carlsen. Montaggio: Olivia Neergaard-Holm. Musiche: Martin Dirkov. Interpreti: Zar Amir-Ebrahimi, Mehdi Bajestani, Arash Ashtiani, Forouzan Jamshidnejad, Sina Parvaneh. Origine: Danimarca/Ger/Fra/Svezia, 2022. Durata: 115′.