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Guardando chi ci guarda

E’ successo a Varese, nella sala di Filmstudio 90. La pellicola de L’uomo di paglia di Germi, pur reggendo senza rotture tutta la durata del film, sembra incapace di trattenere il bianco e nero tra i fotogrammi disidratati dall’usura. L’audio imperfetto dichiara l’affanno della vecchiaia; il 1958 che diventa un’eternità fa. La storia resiste per miracolo nell’in-sostanza dell’immagine, affiorante come su una ultimo spettacolosuperficie acquosa e mossa leggermente da uno spiffero. Dalla cabina il rumore del proiettore mai così rauco.
A temere il peggio siamo in molti: a girarci verso la bocca del cannone aspettando lo strappo, il bianco lattiginoso e improvviso sullo schermo, il suono deciso della spaccatura, e poi il lavoro di saldatura del proiezionista. Roba d’altri tempi, che adesso equivarrebbe a un evento performativo con dichiarati intenti provocatori verso lo spettatore e la sua pretesa di dover godere delle perfette condizioni di visione (4k, please). Non è forse una provocazione chiamare lo spettatore per raccontargli non tanto la vicenda di un quarantenne che brucia per una donna che ha quasi la metà dei suoi anni (in un tempo e in un luogo che non esistono più), quanto la storia di un supporto precario e infiammabile in un contesto nuovo di sala digitalizzata, che ha permesso ai vecchi proiettori 35mm di recitare ancora particine da comparsata accanto alle nuove tecnologie che rendono brillanti anche i teli più opachi?
A fronte di un notevole dispiego di risorse ed energie per restare al passo con i cambiamenti, accade poi che anche il sistema digitale presenti delle falle e che a volte la proiezione salti per una chiave di sblocco del file (che poi contiene il film) che invece non sblocca nulla. Codici che non riconoscono frasi di lingue informatiche. Lo schermo resta buio, e il nero non perdona, atterrisce, ovatta i suoni, nega ogni prospettiva di piccolo “restauro” in corsa. Nega la possibilità della visione come avventura.
Capita così che il cervello informatico che dovrebbe decriptare il linguaggio segreto delle nuove tascabili scatole per film, non riesca a leggere nessuna combinazione numerica e ad aprire alcuna serratura. Rimane chiusa nell’astrazione del file la formula matematica del film in cartellone, rimane chiuso nella memoria dello spettatore il corpo-pellicola che si lasciava trascinare dai cilindri dentati nelle curve oliate dei proiettori, fino alla consunzione proiezione dopo proiezione.
Quando adesso arrivano i bambini delle scolaresche, o con i genitori, la domenica pomeriggio per il cinema dei ragazzi, la curiosità rimane intatta per il meccanismo che lavora dietro la porta della cabina. L’alambicco però non suggestiona più con tubicini spiraliformi, gorgoglii e meccaniche esoteriche, per cui, aperto l’accesso alla stanza magica del proiezionista, la domanda non è più “signore, come fa la pellicola a contenere il movimento?”, ma quanti giga di memoria ci vogliono per copiarlo su un hard disk.
Lo stupore si ferma al primo clik del mouse.

A. L.

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