Ho conosciuto Cecilia Mangini qualche anno fa alla Festa del Cinema del Reale a Specchia. Avevo insistito con il direttore artistico Paolo Pisanelli, perché me la presentasse, con l’unico scopo di scambiare qualche riflessione non tanto sul cinema documentario, ma sullo sguardo, o meglio sul “dove” guardare e sul “come” guardare oggi la realtà. Un pretesto, a dire il vero, per sentire vicina una voce che dal dopoguerra ha trovato intonazioni inedite per raccontare il mondo, che imbracciasse la macchina fotografica o la macchina da presa. La parola che mi viene in mente è Urgenza. Un senso profondo della vita che le ha permesso di dare volto e anima ai marginali (che termine terribile! per capirci però): donne del sud Italia, contadini, operai, le periferie e i ragazzini di strada, per descrivere i cambiamenti antropologici con un piglio quasi neorealista. Ma anche fuori dai confini nazionali, come un’avventuriera: basti pensare al Vietnam, insieme a Lino Del Fra (conosciuto quando arriva a Roma nel ’52), in empatia con quel popolo che anelava all’indipendenza. Pisanelli, che è anche uno dei più interessanti documentaristi italiani, proprio nel funesto 2020, ha presentato con Cecilia Due scatole dimenticate – Un viaggio in Vietnam, film sulla memoria proprio di quel viaggio; anzi, sulla tenacia del ricordo che deve sopravvivere al tempo. In definitiva un atto d’amore verso la fotografia che preserva, anche a distanza di decenni, tracce di eventi sbiaditi. Cecilia era una maestra nel fare del fotogramma uno scrigno.
Nata a Mola di Bari nel 1927, anche dopo l’arrivo a Roma, dove diventa sodale di Pier Paolo Pasolini e gira i primi documentari “scomodi” e magnifici ispirati a Ragazzi di vita (Ignoti alla città e La canta delle Marane), non dimentica la Puglia: nel 1960 realizza Stendalì. Suonano Ancora, sul pianto rituale delle donne in lutto, documentario che vede ancora la collaborazione stretta con Pasolini, un affondo nella relazione che lega vita e morte, ma anche nell’accettazione della perdita, dove il pianto è sentimento ma anche rito, con tutta la teatralità della manifestazione del dolore e l’arcaicità del dialetto grecanico. Uno spaccato antropologico e di cultura ancestrale che ancora oggi commuove.
Arrivano poi i documentari più politici, clamoroso il successo di All’armi siam fascisti!, firmato con Lino Micciché e ancora Lino Del Fra. Gli anni 60 sono intensi, nel ’64 gira Essere donne (su spinta del PCI) che guarda alle donne del boom economico. Ma il suo occhio sembra non smettere di indagare la società nei costumi e nelle strutture economiche e politiche che ne cambiano la fisionomia verso una modernità di facciata. All’inizio degli anni 80 ricordiamo il secondo atto di Comizi d’amore commissionato dalla RAI, che nel riprendere l’esplorazione pasoliniana di diciotto anni prima, tira le somme sulla presunta emancipazione sessuale degli italiani quando ormai le Tv private iniziavano a sdoganare un eros volgare e pruriginoso.
Nel 2012, dopo anni in cui il documentario soffre la mancanza di spazi di visibilità, Cecilia Mangini torna nella sua Puglia con In viaggio con Cecilia, firmato con Mariangela Barbanente, film teso tra passato e presente nella geografia delle contraddizioni in una regione bella e dannata (con riferimento al cancro dell’ILVA).
Le sue immagini rimangono come rilievi sulla pietra, intrise di un potere immaginifico che ha saputo tradurre il reale, appena un attimo prima che il tempo lo trasformasse per farne reperto.
Per capirci, Cecilia Mangini merita di essere accostata ai grandi cineasti del 900 italiano.
Alessandro Leone