Oltreconfine: i film che non ci fanno vedere
God’s Pocket
Regia: John Slattery. Soggetto: Pete Dexter. Sceneggiatura: Alex Metcalf, John Slattery. Fotografia: Lance Acord. Montaggio: Tom McArdle. Musica: Nathan Larson. Interpreti: Philip Seymour Hoffman, John Turturro, Christina Hendriks, Caleb Landry Jones. Origine: USA. Anno: 2014. Durata: 88 min.
Philip Seymour Hoffman è ormai uno zombie, te lo ritrovi quando meno te lo aspetti in qualche festival del cinema, o dimenticato tra gli interstizi virtuali della rete. Come una strana infezione virale, un bug di sistema, un oggetto che si riproduce in una molteplicità di cloni fantasmatici. Questo God’s Pocket, presentato all’ultimo Sundance, è saltato fuori dal nulla, nessuno se n’è accorto, pochi ne hanno parlato, ancora meno lo hanno visto. Inspiegabilmente, non soltanto perché ci recita uno dei grandi nomi dell’Olimpo prima che le moire, le tria fata della tradizione antica, decidessero di reciderne il filo della vita, ma perché la pellicola diretta dall’attore John Slattery non ha certo motivo di condanna all’oblio. Si tratta di un film di breve lunghezza, appena un’ora e venti, ma ragionato come soltanto un film tratto da un grande romanzo potrebbe esserlo. Il sostrato letterario è infatti quello di Pete Dexter, che all’inizio degli ottanta dette alle stampe un omonimo libro di ambientazione periferica, un po’ forse sulla scia dei vari Hubert Selby Jr., e che seguiva l’everyday life di un quartiere di Philadelphia, il Devil’s Pocket, questa striscia di brutti casermoni in mattoncini rossi e palazzine operaie che costeggiano il Schuylkill River. Insomma, uno di quei posti riservati agli immigrati irlandesi e italiani, ai parassiti, i furbetti, gli accattoni e i disperati.
Nel film di Slattery i personaggi seguono tutti questa regola, e quindi sono brutti, grassi e puzzolenti, non si lavano perché non hanno i soldi per farlo né la speranza di un avvenire migliore, e nei ritagli di tempo libero non fanno altro che parcheggiarsi al bar di quartiere bevendo come delle spugne. Sono dediti a ogni tipo di commercio illegale, contrabbando o strozzinaggio che dir si voglia, sono rissosi, mafiosi, omertosi e non hanno niente che ce li faccia piacere tranne la faccia tosta e l’umanissima arte di arrangiarsi. Philip Seymour Hoffman è Mickey Scarpato, uno che deve racimolare i soldi per pagare i funerali del figliastro (Caleb Landry Jones), ragazzotto psicotico e impasticcato che si è fatto fracassare la testa sul posto di lavoro come rappresaglia per aver tentato di tagliare la gola a un vecchio negro taciturno. Gli operai del cantiere non hanno il coraggio di confessare la verità alla polizia, così la morte del giovane risulta un banale incidente sul lavoro e il caso viene archiviato. Gli unici a non crederci sono la maggioratissima Jeannie (Christina Hendricks), madre del defunto, e il giornalista alcolizzato Shelburn (Richard Jenkins). Poi c’è John Turturro, macellaio amico fraterno di Mickey, che ci mette del suo sguinzagliando un paio di usurai nel cantiere incriminato pur di sciogliere qualche lingua. Il risultato è una commedia del grottesco dove la tragedia si mescola alla farsa, il dolore alle risate, l’umorismo da osteria alla sofferenza di una vita senza possibilità di cambiamento. È il lato oscuro del sogno americano, quello che Slattery inscena con grande equilibrio compositivo, recitazione compunta, poche esplosioni di strazio, nessun piagnisteo se non dove necessariamente richiesto.
Forse è proprio la sobrietà della pellicola a spiegarne l’insuccesso al botteghino: un americano deve sempre urlare le cose, un po’ come i nostri napoletani, mentre il regista ci insegna che basta accennarle perché arrivino meglio al cuore dello spettatore. È una visione molto europea del cinema e dell’arte, con le conseguenze che se ne traggono. Persino la violenza raggiunge picchi di allarmante realismo: in una scena tre ciccioni se le danno di santa ragione, fino a quando uno di loro non cava l’occhio a mani nude all’avversario, con tanto di rumore gelatinoso in sottofondo e uno spruzzo di sangue a rendere il tutto ancora più tosto; in un’altra una vecchietta spara a sangue freddo a una coppia di gangster mentre il figlio si diverte a prenderne a calci i cadaveri, e in una terza l’impresario delle pompe funebri, stufo dei pagherò di Hoffman, abbandona il corpo del figliastro nel mezzo di una strada, ben vestito e più rigido di uno stoccafisso. Così il patrigno, per evitare l’onta pubblica, carica la salma sul furgone frigo e la abbandona momentaneamente tra i manzi appesi. God’s Pocket procede di questo passo, grande attenzione ai dettagli e tanto amore per quella massa acefala chiamata razza umana. Di rado il cinema statunitense si concentra sui reietti della società, gli sconfitti, i poveri e i bisognosi con la medesima grazia di questo regista. Senza gli eccessi di un Irvine Welsh, senza il buonismo di tanto, troppo cinema d’oltreoceano. Per gli estimatori del compianto Hoffman, ricordiamo altri due lavori previsti per l’anno corrente: Hunger Games – Il canto della rivolta parte seconda e una serie tv intitolata Happyish. Viene da chiedersi se sia morto per davvero, o l’abbiano sostituito con qualche sosia.
Marco Marchetti