Quest’anno il Torino Film Festival ha dedicato una retrospettiva a Teona Strugar Mitevska, sconosciuta a molti ma probabilmente la regista più importante della Macedonia. I suoi film sono infatti da quindici anni presenti ai principali festival mondiali, quali Berlinale, Toronto, Rotterdam, Sarajevo. A Torino si è visto anche God exists, her name is Petrunya, il suo nuovo film che aveva avuto l’anteprima a Berlino lo scorso febbraio e che uscirà in sala distribuito da Teodora il prossimo 12 dicembre.
A Stip, una piccola città in Macedonia si segue una tradizione speciale: per l’Epifania – che secondo il calendario ortodosso si festeggia il 19 gennaio – il sacerdote locale getta un crocifisso di legno in un fiume, centinaia di uomini si tuffano nelle acque ghiacciate e lo cercano per rinnovare simbolicamente, anno dopo anno, il sacrificio dell’uomo nei confronti di Dio. Chi ci riesce, così racconta la tradizione, avrà buona fortuna e prosperità per un anno intero. È una vera corsa tra gli uomini del paese, infatti per vincitore si intende naturalmente uno degli uomini, le donne non sono autorizzate a prendere parte a questo rituale. La regista macedone prende come spunto di partenza del film un fatto vero: nel 2014 una donna è saltata in acqua improvvisamente e ha preso la croce, scatenando così uno scandalo nel cuore del sistema di tradizioni conservatrici del paese.
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Liberté di Albert Serra e Vitalina Varela di Pedro Costa sono i due film che più rimarranno nelle memoria di questo Torino Film Festival, il primo presentato in apertura del focus “Desiderio” che è stato uno dei vertici di Tff Doc, il secondo è stato invece il film di punta di “Onde”, la sezione del festival più attenta al cinema che sperimenta sguardi e punti di vista. Si tratta di due film notturni, pieni di fantasmi e di morte, due film politici che indagano il corpo umano, sicuramente ostici ma pieni di cinema che sembrano oggetti diversi dai molti filmetti o semplici raccontini che erano visibile nelle altre sezioni del festival torinese.
Liberté è il settimo lungometraggio diretto dallo spagnolo Albert Serra, autore da anni famosissimo nei festival internazionali. Quest’ultimo lavoro, presentato in anteprima all’ultimo festival di Cannes all’interno di “Un certain regard”, è un viaggio nel libertinismo settecentesco, con la Francia prossima a crollare sotto i colpi della Rivoluzione. Siamo nel 1774, Madame di Dumeval, il Duca di Tesis e il Duca di Wand, libertini espulsi dalla corte puritana di Luigi XVI, cercano il sostegno del leggendario Duca di Walchen, seduttore tedesco e libero pensatore. La loro missione è esportare in Germania il libertinaggio, una filosofia illuminista fondata sul rifiuto della moralità e dell’autorità ma anche, e soprattutto, di trovare un luogo sicuro per perseguire i loro giochi erotici. Le novizie del vicino convento saranno trascinate in questa pazza notte in cui la ricerca del piacere non obbedisce a nessuna legge.
Il film si svolge in un bosco durante una notte piena di giochi sessuali: falli veri e finti, frustate, copule, escrementi, di tutto e di più scorre sullo schermo intramezzato dai dialoghi tra i nobili. La grandezza del film è il modo in cui Serra filma questi giochi, la camera è sempre immobile e lo sguardo è quasi entomologico, rigorosissimo e feroce. Formalmente siamo vicini a Historia de la meva mort e a La mort de Louis XIV dello stesso Serra, due film “storici”, altrettanto mortuari. Serra continua la sua indagine sul corpo umano, un corpo che si deforma, che viene distrutto a poco a poco, che prova a fare un sesso che non porta mai a un vero piacere, un corpo che verrà sconfitto dalla Storia.
Vitalina Varela è invece il nuovo incredibile film di Pedro Costa, cineasta portoghese di ormai sessant’anni ma che solo ultimamente riesce a far riconoscere il suo cinema ai massimi livelli. Il film, vincitore del Pardo d’oro all’ultimo festival di Locarno, racconta di Vitalina Varela, una donna capoverdiana di 55 anni che arriva a Lisbona tre giorni dopo il funerale del marito. Ha atteso il biglietto aereo per oltre 25 anni.
Girato senza sceneggiatura, è un film che attinge dai ricordi e dalla vita della stessa Vitalina che interpreta se stessa. È ambientato in uno storico quartiere di Lisbona, in parte ricostruito in studio per cercare di riprodurre gli ambienti della comunità capoverdiana nei sobborghi della capitale portoghese.
Anche Vitalina Varela è un film di corpi, quello nero e di statuaria bellezza di Vitalina, quello insanguinato e coperto da un lenzuolo pieno di sangue del marito, quelli consumati, storpi e miserabili che la circondano in questo viaggio a Lisbona. Lo sguardo di Costa è statico come sempre, in un rigoroso 4:3 tende a ricercare piccoli dettagli nella misera oscurità di questa Lisbona lontana da qualsiasi luce della modernità. La messa in scena è minimale e piena di ombre, cerca di far emergere, quadro dopo quadro, il trascendente dalle immagini. Ci fa capire così che Vitalina è giunta troppo tardi a Lisbona, non le rimarrà che prendere in mano i pochi affari del marito defunto. Nessuno piangerà il suo lutto e lei non piangerà per gli altri, s’impegnerà solamente a ricostruire il ricordo di una casa a Capo Verde, contro la triste realtà di un Portogallo che non ha saputo darle un vero tetto.
da Torino, Claudio Casazza