Sacro GRA di Gianfranco Rosi si aggiudica il Leone d’Oro alla settantesima Mostra del Cinema di Venezia. Non è il classico premio annunciato. Era dal 1998 che un Italiano non portava a casa la statuetta (Così ridevano di Amelio, anche lui in concorso quest’anno con L’intrepido). La sorpresa (relativa per chi scrive) è forse dovuta non tanto ai quindici anni di astinenza per il cinema italiano, raramente in grado di portare in concorso film convincenti, ma alla natura del film. Sacro GRA è ciò che si definisce un documentario, senza per altro averne la struttura più familiare al grande pubblico. Un film d’osservazione, di posizionamento, con la mdp a registrare la vita senza il timore di un’immersione totale, empatica, alla ricerca dei punti di superficie che possano permettere di affondare in profondità in maniera discreta, non invasiva, rispettosa. Modalità non nuova nel cinema, da Flaherty a Philibert, passando per il compianto Vittorio De Seta. Canonizzato dalla televisione il documentario informativo con voice over e interviste, questo genere di racconto scommette sull’unica equazione possibile che renda geometria perfetta il raccordo tra scene, il dialogo tra immagini, le licenze poetiche dove la forzatura si diverte a confondere il pubblico, a minare il confine incerto tra reale e sua rappresentazione, diremmo l’anagramma del reale, senza per altro nulla togliere all’impressione di realtà.
Così il documentario si fa una volta per tutte film, disintegrando la barriera del genere, finalmente ospite fisso dei concorsi festivalieri che contano (fu Moore, Palma d’Oro a Cannes nel 2004 a sancire la fine dell’apartheid definitivamente), distribuito sempre più spesso nelle sale; soprattutto è inesauribile terreno per sperimentazioni linguistiche che il film di finzione (che brutta definizione) non può che permettersi di tanto in tanto e con molti rischi, schiavo di strutture ed estetiche logore.
Anche Venezia se ne è accorta. E forse ci voleva proprio il più vituperato tratto stradale del nostro paese, un circuito che si infiamma giornalmente, per scoprire che se l’eccezione è regola nel cinema, anche la vita può sorprendere senza troppo truccarsi allo specchio.
Per cui ditelo a chi perde giorni di vita in coda sul GRA (Grande Raccordo Anulare) che questo anello di asfalto è in realtà un universo vivo e complesso, sciatto e poetico al tempo stesso, deprimente e surreale. La differenza, ovvio, la fa l’occhio che guarda.
Alessandro Leone