Quattro anni dopo l’Orso d’oro a Cesare deve morire dei Taviani, l’Italia rivince il Festival di Berlino con Fuocoammare di Gianfranco Rosi. Un riconoscimento importante al cinema italiano, ma dettato dal contesto internazionale, non a caso era presente alla premiazione il ministro degli esteri tedesco Frank-Walter Steinmeier. È come se la falsa coscienza della Germania premiasse la falsa coscienza dell’Italia e tutta l’Europa se la lavasse. Un verdetto scontato e atteso, politico come tradizione della Berlinale, stavolta nell’accezione peggiore.
I giurati, ma non solo i giurati, sono caduti nella trappola di un film che racconta Lampedusa e i migranti che vi arrivano. Il vero protagonista di Fuocoammare è l’undicenne Samuele Pucillo, fratello di Filippo, attore nei film di Emanuele Crialese. Rosi filma, senza farle sfiorare mai, la vita del ragazzo, raccontata anche con toni da commedia, e la tragedia delle migliaia di uomini e donne e bambini che cercano un futuro migliore in Europa. Documentario dove molto è invece messo in scena e dove solo le morti, ben visibili, sono terribilmente reali. Rosi, già Leone d’oro a Venezia 2013 per Sacro Gra, si dimostra interprete di punta di una nuova tendenza del cinema, ma ancora una volta premiato al di sopra dei propri meriti. Il tema affrontato ha prevalso, non a caso anche tra i cortometraggi sono stati premiati due film sui profughi, sul modo retorico ed estetizzante nel quale è stato trattato nel film italiano.
In uno delle peggiori competizioni in un grande festival da parecchi anni a questa parte, con 18 film, dei quali meno della metà di un livello da concorso, la giuria presieduta da Meryl Streep ha compiuto scelte nell’insieme molto discutibili (66_Berlinale_Awards). A A Lullaby to the Sorrowful Mistery di Lav Diaz, di gran lunga la pellicola migliore del lotto, è andato soltanto l’Orso d’Argento Alfred Bauer, perché apre “nuove prospettive”. Un riconoscimento che suona più come una presa in giro che una valorizzazione di un lavoro che lascia senza parole: le nuove prospettive sono forse quelle di giurati che non avevano mai visto un film di otto ore di durata, dal momento che il cineasta filippino ha già vinto il Pardo d’Oro a Locarno e la sezione Orizzonti alla Mostra di Venezia ed è uno dei grandi cineasti di questo secolo, sempre con opere di lunghezza fuori canone. Diaz è capace di raccontare la rivoluzione contro i coloni spagnoli tra il 1896 e il 1898 con il passo della migliore letteratura e la visione dei grandi pittori, mostrando la sofferenza e la fuga (anche qui c’è chi scappa dalla guerra) con una partecipazione e un pudore che mancano in Fuocoammare. “Dedico il premio ai cineasti che ancora credono che si possa cambiare il mondo con il cinema” – ha detto il regista. Tra i premi più meritati, c’è il Gran premio della giuria al corale e altmaniano Death in Sarajevo di Danis Tanović, già premio Oscar per No Man’s Land, riflessione sull’Europa a cent’anni dall’attentato di Sarajevo, senza dimenticare le guerre jugoslave, a partire da un testo teatrale di Bernard Henry-Levi. Meritato pure l’Orso alla danese Trine Dyrholm (Festen e In un mondo migliore) come miglior attrice: in un lungometraggio fiacco e prevedibile come Kollektivet di Thomas Vinterberg, dà sfoggio ancora una volta di talento oltre che di una presenza fisica rara. Tra gli attori è stato premiato Majd Mastoura, protagonista della piccola bella sorpresa del concorso, il tunisino Hedi di Mohamed Ben Attia, nei panni di un giovane che nell’incontro con una donna scopre il mondo e la forza di ribellarsi a un destino scritto. Il film, coprodotto dai Dardenne, ha ricevuto anche il premio quale miglior film d’esordio. Il cinese Crosscurrent di Yang Chao, poetico, ipnotico e visionario viaggio di fantasmi lungo il fiume Yangtze, una delle rivelazioni dell’edizione, ha ricevuto solo il premio per il miglior contributo tecnico al direttore della fotografia Mark Lee Ping-Bing, mentre avrebbe potuto ambire a molto di più. La francese Mia Hansen-Love, nota per il buon Eden, è stata premiata per la regia di L’avenir, un film vecchio come i discorsi sui filosofi della scuola di Francoforte tra la protagonista Isabelle Huppert e il suo allievo prediletto. Un film nel filone dell’Assayas minore, tipo Aria di primavera. Poco azzeccato anche il premio per la sceneggiatura al supponente e un po’ inutile polacco United States of Love di Tomasz Wasilewski (rivelato dal molto più riuscito Floating Skycrapers), che vorrebbe rappresentare la Polonia alla caduta del comunismo attraverso lo smarrimento di quattro donne e invece gira sempre più a vuoto.
Se non ci sono grandi esclusi dai premi, ci sarebbe stato bene lo struggente portoghese Cartas da guerra di Ivo M. Ferreira, un film in bianco e nero sulla guerra a metà tra Malick e il suo connazionale Miguel Gomes. Fa notizia l’assenza, per una volta, di film tedeschi dal palmarès, del resto i due presentati non erano all’altezza: la più attrezzata era Julia Jentsch (già migliore attrice per La rosa bianca – Sophie Scholl) per 24 wochen, ma nulla ha potuto rispetto alla Dyrholm. Fuori dai premi anche gli americani, ma era prevedibile: il vero concorrente per Rosi sarebbe stato Chi-Raq di Spike Lee, ma è stato presentato fuori concorso.
da Berlino, Nicola Falcinella
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