Frank Pavich nasce a New York nel 1973. Dirige il suo primo documentario (N.Y.H.C.) nel 1999, per poi continuare il suo successo di critica nel 2013 con il suo Jodorowky’s Dune. È di questa sua seconda opera che parliamo con lui in una lunga intervista.
Cinequanon: Come ti sei avvicinato al progetto? Alla base sembra esserci una “presa di posizione archeologica”, come se tu stessi portando alla luce una città che sia rimasta nascosta ai nostri occhi forse troppo a lungo. Riesci a farci immergere nella storia, e questo non solo perché le idee di Jodorowsky sono stupende, ma anche perché il modo in cui strutturi il film è eccellente.
Pavich: Oh, grazie mille! Sì, credo che ci sia un certo elemento archeologico nel film. Di certo non era una storia conosciuta. Si potevano trovare, qui e lì, degli stralci, ma non una sua narrazione definitiva. Noi stessi ne siamo venuti a conoscenza nel tragitto, mentre filmavamo le interviste e montavamo le scene. C’è del vero in quello che dici: ad ogni nostro passo scoprivamo dei tesori nascosti.
Da un certo punto di vista, per me è stato un salto nel buio. A dirla tutta, non conoscevo neppure tanto bene il romanzo Dune. Credo di averlo finito di leggere durante il volo per le nostre prime riprese! E, sì, non ho guardato il film di Lynch. La mia intenzione era quella di ricatturare quel preciso momento in cui Jodorowsky e il suo gruppo si trovavano all’opera. Non volevo che nulla mi influenzasse, nulla che potesse mandare le cose in qualche strana direzione.
E inoltre, che altro importa veramente? Io stavo solo cercando di raccontare la storia di questo evento e dei sogni di Alejandro. Che bisogno c’è di cose superflue quando uno dei più grandi narratori de mondo si sta aprendo a te?
Cinequanon: Il Dune di Jodorowsky è il film più grandioso a non essere mai stato fatto, o forse sarebbe stato il più grande flop della storia, il sogno di un folle (creativo) che pensava di poter fare qualunque cosa? Rimaniamo folgorati, non c’è dubbio, quando ci troviamo davanti alla pura forza immaginativa che Jodorowsky stava convogliando sul suo progetto, tuttavia questo non vuol dire per forza che un film possa avere successo. Forse il progetto era destinato a fallire sin dal principio per il suo essere troppo impraticabile, non abbastanza “vendibile”?
Pavich: Non saprei dire se le due cose debbano venire separate…il più grande film di sempre e il più grande flop di sempre. Sappiamo che il successo non è un indice di qualità. Il più grande film di sempre potrebbe non essere un successo al botteghino. E il film che si trova al primo posto per gli incassi potrebbe essere una robaccia vuota.
L’obiettivo di Alejandro era quello di fare il più grande film di tutti i tempi. La sua visione era così smisurata che pensava che il film sarebbe stato un profeta. Voleva che la vita di chi lo avrebbe visto venisse cambiata per sempre. Voleva che questo film cambiasse letteralmente il mondo.
Il pubblico lo avrebbe “capito”? Chi può dirlo? Sarebbe stato qualcosa di unico. Sarebbe stato un blockbuster? Chissà. Ma, in ogni caso, sarebbe stato grandioso. Quello che dobbiamo fare, ora, è dare una definizione di “grandioso”.
Credo fermamente che sia riuscito a creare un profeta. Le prove sono davanti a noi. Come spiegare, altrimenti, che questo film incompleto, un film che nessuno ha mai visto, abbia influenzato così tante altre cose? I bozzetti non sono mai stati resi pubblici. E allora com’è possibile che quelle idee che esistevano solo nei suoi storyboard si siano infilate in molti di quei film che conosciamo e amiamo? La risposta è la magia. Perché Alejandro Jodorowsky è un mago.
Forse era destino che il suo Dune non venisse completato. Forse il film ha trovato il suo compimento nel momento giusto. Forse è riuscito a non venire logorato. Alejandro ha ragione quando dice che il suo Dune non è stato un fallimento. Ha completato i progetti e la pre-produzione. Non avendo mai girato neppure un fotogramma, non può quindi essere chiamato un disastro. Se il progetto si fosse arenato dopo un’ora, un giorno o una settimana di riprese, allora potremmo definirlo un fallimento. Le prove sarebbero i metri di pellicola inutile, impossibili da usare per trarne un film completo. Ma non è accaduto questo. Io credo che quello che è successo fosse destinato a essere così. Alejandro ha fatto qualcosa di più grande di ciò che noi mortali possiamo capire.
Cinequanon: Hai girato un film su un film mai realizzato. Quello che ci offri è un prodotto completo su un’opera d’arte incompleta, e facendo ciò trasformi la tua narrazione in un’opera d’arte. Non è questo, da un certo punto di vista, un’asserzione più intensa sul tentativo fallito di Jodorowsky di girare Dune? Il tuo film è uno specchio di ciò che sarebbe potuto essere, ma nel farlo (nel girare e nel produrre il documentario) fai sì che lo specchio diventi l’oggetto della nostra fascinazione. I progetti falliti, allora, possono non solo essere più interessanti e affascinanti che se non fossero stati fatti, ma anche diventare il punto d’inizio per nuove opere d’arte, come nel tuo caso?
Pavich: Penso di aver facilitato il completamento di questa storia, una storia che si è dipanata lungo 40 anni. Il lavoro di Alejandro su Dune finisce negli anni settanta. E tra quel momento e oggi, il prodotto è diventato senziente e ha preso vita. È simile a quanto Paul dice a suo padre in Dune, nel romanzo: “Il dormiente si è svegliato.” La visione di Alejandro ha permeato la nostra cultura. Tutto questo e la prospettiva di Jodorowsky rendono il documentario qualcosa di speciale.
Quando mi sono avvicinato a Jodorowsky per fare questo documentario era trascorso abbastanza tempo. Le sue ferite si erano risanate ed era in grado di percepire la reale maestosità di ciò che aveva fatto. Quindi, con questo documentario spero di avere gettato della luce su ciò che sarebbe potuto essere e su ciò che è.
Come dice Nicolas Winding Refn nel film, “Tutte le strade ci riportano a Jodowrosky”.
Cinequanon: Un dialogo è tale perché due o più persone parlano. Ma, allo stesso tempo, un dialogo può diventare un monologo se nascondiamo la nostra presenza e lasciamo che si senta solo una voce. Tu fai parlare Jodorowsky, e molti altri, e in tutto ciò tu sembri scomparire. Tuttavia la tua presenza è così importante poiché è la struttura su cui si basa il film, una struttura senza la quale tutto diventerebbe un mosaico caotico da cui non si potrebbe estrarre alcun senso. Come sei riuscito a essere una presenza così forte e, allo stesso tempo, stare nelle retrovie, lasciando che altre voci fossero sotto i riflettori?
Pavich: Tranne in rare eccezioni, odio quando i documentaristi mettono se stessi nella storia. Dio, ci sarebbe forse qualcosa di peggiore di me che mi inserisco in questo film? Magari con la mia orribile voce narrante : “Sapevo che dovevo prendere della marijuana magica per esplorare più in profondità la mente di Jodorowsky…” Oh no!!
Spero che si senta la mia presenza, ma in forma intangibile e fuori dal campo visivo. Un po’ come le tubature. Se i servizi igienici funzionano, nessuno pensa a loro. Ma quando queste non funzionano, c’è odore di merda ovunque. Ecco, io voglio essere simile a un buon idraulico!
Cinequanon: Qual è la tua opinione nei riguardi delle sceneggiature mai prodotte? Che cosa ci dice il fatto che tali progetti, spesso il prodotto di un duro lavoro e di una immaginazione incredibile, vengano messe dove nessuno può anche solo dar loro un’occhiata, mentre ogni mese vediamo uscire nelle sale film orribili? La mia intenzione non è quella di essere paternalistico, ma non è un po’ assurdo pensare che delle grandi opere d’arte non ricevono (né riceveranno) mai la luce verde a volte solo per il fatto di non esserci una buona comunicazione tra gli sceneggiatori, i registi e i produttori?
Pavich: Non credo che nessuno abbia come obiettivo quello di fare un brutto film. I film sono difficili da fare. Si tratta di una situazione speciale, di una forma d’arte in cui si richieste uno spirito di gruppo. Non è come lavorare nel teatro. Non ci sono seconde possibilità. Non intendo parlar male del teatro; quello che voglio dire è che quando porti in scena uno spettacolo, rifai lo stesso testo ogni sera, con gli stessi attori, con gli stessi tecnici, sullo stesso palco, etc. Questa forma d’arte ti permette di raffinare le cose, di renderle migliori, di mettere a posto qualsiasi cosa non funzioni.
Fare un film è qualcosa di completamente diverso. Prima di tutto, mentre lo fai questo si trova diviso in parti. Un giorno giri la scena 33, il giorno dopo forse la 5, e poi la 17, etc. Un film è fatto da un gruppo di considerevoli dimensioni ripartito in molte e diverse sezioni. E quel particolare gruppo di persone non si è mai trovato assieme per raccontare quella storia. Dobbiamo gridare al miracolo quando un film è buono!
Credo ci sia un modo di dire, qualcosa riguardo al fatto che tutti abbiamo due lavori, il nostro e quello di critico cinematografico.
Ci sono certamente più film non prodotti che film completati. È un dato di fatto. Ma di solito i film non prodotti si limitano a un copione a cui qualcuno ha detto “no”. Quei copioni passano la loro vita su qualche scaffale.
E alcuni film incompleti vengono fermati a metà riprese. Un buon esempio è il Don Chisciotte di Terry Gilliam, anche se alla fine, a distanza di anni, è riuscito a portarlo a termine.
Ma non credo che ci sia mai stato un film tanto completo come il Dune di Jodorowsky che alla fine non sia stato fatto. Si è trattato di un progetto dove tutto era stato pensato, in ogni minimo dettaglio, e che alla fine è stato bloccato.
Il fatto di avere a disposizione della tecnologia a costi abbordabili ha permesso ormai a chiunque di girare un film, è questo è qualcosa di straordinario. In tasca hai un cellulare con una videocamera molto buona. Se tu avessi voglia, potresti usarlo per fare un film.
Il problema è cosa vuoi farne una volta che hai girato quel film. Come fare in modo che la gente lo veda? La tecnologia ha aperto le porte della creazione di film a tutti, ma le grandi case di produzione e i grandi distributori oggi fanno parte di conglomerati internazionali. A loro importa un cosa molto semplice: i soldi. Sono più disposti a fare qualcosa che gli possa garantire, come credono, un profitto. E per loro questo significa, di solito, un sequel. “Hey, l’ultima volta ha funzionato!” Per questo ci ritroviamo con meno storie originali e più parti 3, 4, 5, 6 e così via.
A Hollywood c’è quella che si chiama la Blacklist, ossia una lista dei migliori copioni non prodotti. E così, anche se questi grandi conglomerati detengono la maggior parte del controllo, è magnifico vedere come le persone apprezzino ancora la qualità e come si mettano alla ricerca di quello che è effettivamente valido.
Tuttavia, abbiamo anche dei fantastici distributori minori, come Valmyn e Wanted. Sono le compagnie come queste che salveranno letteralmente il cinema. Hanno passione e volontà. La prova è il fatto che si sono presi la briga di portare il nostro piccolo documentario nei cinema italiani. Dopo tutti questi anni, eccoli qua a credere ancora in noi. C’è sempre della speranza.
a cura di Guido Negretti
L’immagine di copertina è tratta dall’intervista del 2014 al Trieste Science+Fiction.