In occasione dell’uscita di Il pretore, pubblichiamo un’intervista agli attori coinvolti a cura di Marco Marchetti.
Francesco Pannofino
Ricorda un film particolare che ha doppiato? Un attore a cui ha prestato la voce e che le è rimasto a cuore?
Ricordo Forrest Gump, bellissimo film del nostro tempo. Ho avuto la fortuna di dare la voce proprio al protagonista; quello è stato un lavoro importante, che mi ha lanciato nel mondo del doppiaggio, e infatti dopo di quello ho cominciato a ricoprire ruoli più noti. Io però facevo questo lavoro già da vent’anni: ho cominciato giovanissimo, diciannovenne, occupandomi di radio, teatro e doppiaggio; solo in seguito sono arrivati il cinema e la televisione. Il lavoro di attore è stato abbastanza contemporaneo a quello di doppiatore: facevo l’attore per il teatro, facevo spettacoli per le scuole e cose così, unito a compagnie accroccate… Però è una grande palestra. Io dico a tutti i giovani che vogliono fare gli attori di fare teatro, anche cose brutte. Il palcoscenico è una palestra, bisogna frequentarlo, poi quando sei padrone del tuo fisico e della parola, allora puoi affrontare tutti i settori del nostro mestiere.
Un ruolo da attore a cui è affezionato?
Ce ne sono tanti, diciamo che sono affezionato a tutti i personaggi che ho interpretato. In questo momento al personaggio del pretore, perché è l’ultimo che ho impersonato. Ma senza nulla togliere agli altri.
Parliamo allora de Il pretore: sembra che il ruolo le sia stato cucito su misura…
Per un attore, raccontare un personaggio con tutti i suoi difetti e le negatività è abbastanza impegnativo, ma anche eccitante, se si può usare questo termine. Sono contento di averlo fatto, anche perché leggendo il romanzo di Chiara da cui il film è tratto ho visto che ero adatto a ricoprire questo ruolo. L’ho fatto volentieri, mi sono divertito, e penso che il risultato sia soddisfacente.
Cosa ne pensa della critica? Questo ormai lo chiedo sempre a tutti…
La critica fa il suo lavoro, io credo che non bisogna mai esaltarsi se ne dice bene, né abbattersi se ne dice male, poi ognuno ha il diritto di pensarla come vuole; la critica ci accompagna: tutto sommato facciamo lo stesso lavoro, noi dipendiamo da loro e loro dipendono da noi. C’è un po’ un mutuo soccorso. Sono in disaccordo su alcuni aspetti della critica: quando uno solleva una critica sull’operazione, sul lavoro, in quel caso è bene accettarla anche se è negativa, ma quando ci sono dei critici che la buttano sul personale, che eccedono offendendoti anche come persona, allora lì non ci sto più. Se tu mi vuoi criticare come attore, mi sta bene, ma se poi mi devi criticare come persona, allora è un altro discorso. Non ci conosciamo, non sai chi sono. Però io sono convinto che sono complementari a noi, ci si può convivere, ecco.
Lei ha lavorato con Nanni Moretti in Caro Diario e Il portaborse. In entrambi i film faceva la parte dell’autista…
In Caro diario recitavo nella scena forse più famosa della pellicola, e che si trova in tutti i trailer, quella in cui Moretti scende dal motorino e dice che si troverà sempre meglio con una minoranza di persone che con una maggioranza; io ero in macchina e gli dicevo, ciao auguri e partivo. Tra l’altro è la frase che sta sulle magliette, la maggioranza e la minoranza… Mentre ne Il portaborse avevo una parte meno memorabile, davo un paio di cazzotti a Silvio Orlando.
Lei ha recitato con Aurelio Grimaldi, luinese d’adozione, ne Il macellaio. C’è un qualche collegamento?
Perché, Grimaldi è di Luino? Veramente? Questa è un’enorme novità. Niente affatto, nemmeno lo sapevo che fosse di Luino. È una pura casualità.
Per quanto riguarda Il pretore, invece?
L’approccio è stato cercare di essere il più possibile fedele al romanzo che io ho amato e amo tantissimo, quindi non ho cercato di fare nessun tipo di stravolgimento autoriale o di invenzione personale. Questo era il vero intento, anche se evidentemente ridurre un romanzo di centinaia di pagine a un film di un’ora e mezza comporta giocoforza qualche piccolo tradimento, il primo dei quali è stato proprio eliminare il capitolo finale, che tra l’altro lo stesso Chiara aveva eliminato dalla sua sceneggiatura. Perché Chiara, diversamente da tutti gli altri film che sono stati tratti da suoi libri, questo progetto avrebbe voluto dirigerlo lui. C’era un trattamento e c’era una sceneggiatura, che noi abbiamo potuto consultare. La critica letteraria del tempo aveva amato molto il Chiara dei primi romanzi, poi però questo amore era andato affievolendosi con il crescere del successo di pubblico, come d’altronde spesso accade; e così la critica aveva bacchettato molto questo capitoletto finale, giudicato un po’ posticcio. E sinceramente mi trovo d’accordo. C’è questo bambino che nasce nella parte cardine del romanzo e che ritorna vent’anni dopo… sai quelle cose un po’ attaccaticce. Lo avevano criticato molto Sereni, Pontiggia, Bevilacqua, Prezzolini, insomma aveva ricevuto critiche importanti, e forse proprio per questo motivo lo aveva eliminato dalla sceneggiatura. Quindi ci sembrava giusto toglierlo, proprio per fedeltà, seppure nel romanzo sia presente. E questa è l’unica minivariante che abbiamo fatto.
Lei è stato prima attore e poi regista. Com’è stato questo passaggio?
Guarda, è stato abbastanza naturale, ho cominciato con un film dei primi anni novanta che Nocturno ha amato molto, e che si intitola Crack. Io prima facevo soltanto l’attore, ho cominciato nell’83, quindi sono più di trent’anni che faccio questo mestiere. Non sono mai stato quello che si metteva lì ad aspettare la telefonata, non ce la facevo, allora ho cominciato a fare da me con un gruppetto di amici, tra i quali c’era Gianmarco Tognazzi. Abbiamo deciso di mettere su una compagnia teatrale, di cui ero io il regista. Era nata questa pièce, che appena messa in scena in un teatrino di Roma ebbe un successo clamoroso: si trattava proprio di Crack. Si fecero avanti molti produttori disposti a finanziarne una versione cinematografica, ma contrariamente a quanto succede di solito, che uno si deve battere per trovare il suo produttore per il primo film, io avevo l’imbarazzo della scelta. Moretti mi aiutò ad avere quello che allora era il finanziamento che si chiamava articolo 28, poi venne Claudio Bonivento, che era un produttore in forte voga all’epoca perché produsse Ragazzi fuori, Mery per sempre, insomma quel tipo di cinema di ragazzi di borgata che è un po’ il tema del nostro film; quindi Minervini che era da poco premio Oscar con Mediterraneo e produceva tutti i film di Salvatores. Tra l’altro io avevo scritto questa sceneggiatura dopo il successo teatrale, ma non pensando di dirigere il film perché non avevo mai nemmeno girato il battesimo di mio nipote! Non sapevo fare nulla, e invece loro insistevano perché lo facessi io. Ricordo che entrai veramente in una libreria a comprarmi la grammatica della regia dalla A alla Z, e infine lo diressi io sul serio. Quindi è stato un po’ “casuale”, però mi ricorderò sempre il mio primo giorno di set da regista: mi è sembrato tutto talmente naturale. Lì ho capito che se il Signore regala un po’ di talento, non che io sia un genio, ma insomma un pochino di talento forse me l’ha dato, me l’ha dato in quella direzione. Ero non dico a mio agio come oggi, ma quasi. Mi sembrava di essere a casa mia, mi sembrava che fosse quello che avevo sempre fatto pur non avendo frequentato nessuna scuola.
Lei lavora molto per la televisione. Qual è la differenza tra il piccolo e il grande schermo?
Io avevo girato negli anni novanta cinque film per il cinema, poi dal 2000 sono passato alla televisione; sono quasi quindici anni che faccio soprattutto fiction. Le differenze sono sia positive che negative. Le positive sono che devi girare, cioè devi consegnare, devi fare, come diciamo noi, il minutaggio: alla fine della giornata devi comunque portare a casa tre, quattro, cinque, sei scene. Questo ti fornisce un’esperienza mostruosa, cosa che io, non possedendo una specifica formazione, all’epoca non avevo. Certo, questa è anche la parte negativa, perché è evidente che la cura lascia un po’ a desiderare quando tratti così tante pagine in un giorno. Il cinema invece ti consente di girare due o tre scene, alle volte una, te la curi bene, parli bene con gli attori, poi sistemi le luci… Insomma la sostanza è il tempo, la grande differenza tra i due mezzi è il tempo.
Cosa ne pensa della critica?
Mi piacciono i critici, io li ascolto. Penso che facciano il loro mestiere, ed è giusto che ci siano, e tutto sommato anche dalle critiche più negative, da quelle scritte in maniera dissennata, si può ricavare qualcosa. Ci sono persino quelli che non sono proprio in grado di parlare di un film, ma anche da loro, se uno riesce a decifrarli, capisce qualcosa. E in più ci sono invece dei critici bravissimi, che se anche mi bacchettano un po’, io li ascolto e cerco di capire perché lo hanno fatto, perché non credo affatto di avere la verità in tasca.
Si possono fare nomi?
Ma tutti, i nomi posso farli tutti. Diciamo che io sono un tipo molto rispettoso dell’età. Per esempio Rondi, che ha l’età che ha, può essere bravo o meno, non lo so, ma insomma sta lì, è un decano, ha visto più film di quanti ne possiamo avere visti io e te in tutta la vita anche se abbiamo vissuto solo di cinema. Ha diretto festival, ha visto i grandi maestri da Fellini in poi, ha un’esperienza mostruosa, quindi se dice una cosa sul film, io tendo ad ascoltarlo. Ma anche Porro de Il corriere della sera e De Agostini di Repubblica, e parlo di persone che scrivono male di me delle volte, perché io non sono amatissimo, ricevono comunque la medesima attenzione: cerco di imparare, di capire perché non sono amato, e non sono mai stato schierato a sinistra che è il modo necessario per essere amato. Certo non posso cambiare la mia ideologia per piacere a loro, ciononostante me li leggo, li stimo, e cerco di imparare.
C’è un regista che la ispira particolarmente?
Quello di cui non perderei mai un film è James Cameron. Lo so che è talmente alto e lontano che nessuno lo cita, però se domani mi dicono che esce un suo film, io al primo spettacolo sono lì, e credo non accada per nessun altro. Ci sono certamente altri registi di cui non perderei un film, magari non vado al primo spettacolo ma non me li perderei lo stesso; e sono tanti, compreso qualche italiano. Se esce un film di Scorsese, vado di sicuro, se esce un film di Coppola, Spielberg, Tarantino anche. Pure gli italiani come Moretti, Tornatore, Sorrentino o Garrone, vado comunque a vederli.
Lei ha cominciato la sua carriera lavorando con Lamberto Bava. Mi può raccontare qualcosa in proposito?
Non fa paura nella vita, è una persona assolutamente scrupolosa e preparata tecnicamente, e ha il culto di questo stile. Ammetto di amare il cinema di genere, mi diverte molto perché mi permette di spaziare con la fantasia. Sicuramente negli anni passati c’era più cinema di genere, quindi capitavano più occasioni di questo tipo. In quegli anni andavano molto i film horror e quindi mi è capitato di lavorarci.
Lei ha lavorato anche in Presagi, l’ultimo film televisivo di Bava, che non era questo granché…
Non faceva paura, hanno voluto creare questo cofanetto con vari registi figli e padri dell’epoca, e insomma era un’operazione che doveva essere cult, anche se poi in un certo senso c’è stata la mano della produzione.
Ho notato un legame curioso tra il cinema e il luinese. Per esempio lei ha avuto una relazione con Marco Risi, che ha diretto il film Mery per sempre, tratto da Aurelio Grimaldi, luinese d’adozione, mentre Grimaldi ha fatto recitare nel Macellaio Giulio Base, regista de Il pretore. C’è un collegamento occulto o è pura casualità?
Non lo sapevo questo di Base… Siamo quasi nel gossip, tra lavoro e gossip. Sì, capisco che il punto di vista è quello del luinese: penso che il cinema passi da Luino, insomma è sempre passato, e per fortuna continua a passare, anche attraverso Il pretore. È un luogo dell’anima, quindi capisco che chi ama il cinema riconosca in questi posti un gusto particolare che si presta e si presterebbe, tra l’altro, anche a degli horror…
La stanza del vescovo di Risi aveva già qualcosa di horror, o almeno di spettrale. Lei ha lavorato anche con Luigi Magni per la televisione e più volte con Pupi Avati…
Con Avati avevo fatto un horror, L’arcano incantatore. Avevo un ruolo minuscolo, quello di una specie di prostituta o donna discinta che si trasforma in strega. Quello è stato il primo progetto sviluppato con Avati, poi mi è capitato di farne altri, Quando arrivano le ragazze, La via degli angeli e via di seguito. È un regista con cui ogni tanto mi capita di lavorare, e mi fa piacere perché mi trovo molto bene con lui.
Regista cult di riferimento?
Jon Jost. Siamo andati al festival di Venezia, io ero la protagonista di un suo film su Tangentopoli intitolato Uno a me, uno a te, uno a Raffaele. Poi ci ho lavorato ancora nel 2006 con La lunga ombra, e lì siamo andati al Festival di Rotterdam. Anche quello era un film molto interessante, girato a Capalbio con Agnese Nano e Simonetta Gianfelici. È un regista veramente da studiare, nel senso che esce poco in sala e finisce più nei musei. È stato uno dei primi cineasti al mondo a ricorrere a queste operazioni cinematografiche a zero budget. Tecnicamente è super preparato, ma tutti dovevano intervenire a livello di idee, di arte, anche spogliandosi di aspettative di ambizione economica. Usava luce naturale e tutto il resto, ancor prima dei vari Lars von Trier. Ho vissuto con lui questo tipo di impatto nel 1994 quando venne in Italia, ma già faceva questo lavoro da vent’anni, quindi per me è stato lui il vero regista che ha rivoluzionato il mio modo interno di essere attrice. Forse mi ha tolto molte ambizioni, però mi ha tolto anche l’ego, per cui ho la fortuna di poter lavorare stando al servizio della storia, del progetto, e questo mi fa divertire molto di più.
Com’è stato passare a Il pretore?
Questa è proprio la caratteristica che ho io, in un certo senso spazio tra i generi come si usava fare un tempo: se pensiamo ad attrici come la Antonelli o attori come Giannini, ecco, questi hanno fatto tutto, più di quanto oggi capiti con il cinema italiano, dove gli attori rimangono spesso intrappolati nel loro personaggio. Mi piace camminare sul filo, anche a rischio di cadere, perché questo mi permette comunque di misurarmi con cose lontane e diverse da me. Il pretore è un ruolo lontanissimo da me, però è assolutamente interessante per una persona come posso essere io affrontare dei demoni del genere. Certo, diventare una diavolessa è stato comunque irresistibile. Ne Il pretore c’è il diavolo, che è appunto il pretore, e c’è la diavolessa. Poi c’è Evelina, che è importantissima per la storia, e Landriani che sono i personaggi più umani, pur nei loro enormi difetti, mentre invece la contessa e il pretore rappresentano delle irrecuperabili dipendenze: lei ha una dipendenza dal potere, lui ha la dipendenza dal sesso, quella di Evelina è una dipendenza affettiva, quella di Landriani è una dipendenza dal lavoro, dall’ambizione, dalla realizzazione di sé. Quindi quelle di Evelina e Landriani sono dipendenze molto presenti nella società di oggi, un po’ come quella dal potere e dal sesso. Secondo me Il pretore è un progetto con uno stile molto preciso, girato da Giulio Base magnificamente. Il regista ha seguito bene l’iter di Chiara ma mettendoci dentro al tempo stesso una grande allegria per poterlo rendere digeribile oggi. Ha conservato uno stile forte, ce l’ha creato tutto attorno a noi, e ognuno di noi aveva un grande desiderio di interpretare il proprio personaggio. D’altronde sono personaggi estremi, e gli attori adorano tutti questo aspetto. La mia contessa è un personaggio che non mi era mai capitato prima, una vera femme fatale. C’è un riferimento all’attualità politica-giudiziaria? Certo che sì, però io devo far finta di no.
A cura di Marco Marchetti