Il film di apertura del Festival Filmmaker 23 è Tutto parla di te, ultimo lavoro di Alina Marazzi e prima sua opera di fiction. Abbiamo incontrato l’autrice di Un’ora sola ti vorrei e Vogliamo anche le rose nel corso di uno dei workshop organizzati da Filmmaker nell’abito del festival e ci ha raccontato come è nato questo progetto (sinossi del film e nota biografica in coda).
Come è nato il tuo film?
L’idea di questo film è nata da un tema che sentivo molto mio, come è stato per Vogliamo anche le rose. Allora si trattava della liberazione sessuale, questa volta si tratta della maternità. Posso dire che se Un’ora sola ti vorrei era un film da figlia, questo lavoro è un film da madre. Sono passati dieci anni e in questo tempo ho avuto due figli, due esperienze che mi hanno fatto capire cose che forse non ero in grado di cogliere delle parole di mia madre. Cosa si prova, come ci si sente nei confronti di una sensazione come quella dell’inadeguatezza.
Prosegue il tuo percorso di esplorazione del mondo delle donne…
E’ chiaro che coi miei film cerco di esplorare l’universo femminile, di analizzarne aspetti anche molto lontani e in apparenza contraddittori. Il confronto con il concetto di “ruolo”, di quello che la società e le persone si aspettano in determinate situazioni, genera delle tensioni narrative che permettono di creare delle storie. Sono sempre partita dall’analisi della realtà, ma questa volta ho scelto di utilizzare la fiction per molti motivi. Trasformare la realtà in una finzione, ma che sia ancorata alla vita vera non è un percorso semplice. Ho dovuto studiare molto materiale, saggi psicologici editi e non, per arrivare a comprendere cosa significhi per una donna lo stato di depressione post-parto. Ho cercato così dei casi estremi, forse il lato più oscuro della maternità, l’infanticidio.
Cosa ti ha fatto scegliere di fare un film prevalentemente di fiction?
La fiction è venuta per molti motivi, in primo luogo tante persone intorno a me chiedevano quando avrei fatto il primo passo in quella direzione, ma non è questo il vero motivo. Di fronte a un tema così tragico, sarebbe decisamente difficile, se non impossibile, realizzare un documentario. Il soggetto originale risale a più di cinque anni fa ed era basato su un caso realmente accaduto a Udine, nel 2005. Il punto di vista era quello della bambina testimone dell’uccisione del fratellino neonato, volevo capire come sopravvivere a un evento del genere. I lavori sono stati interrotti dalla mia seconda gravidanza, un fatto che ha cambiato drasticamente le mie prospettive. E’ cambiata la mia disposizione alla tragedia, il primo soggetto non mi assomigliava più.
Come è cambiata la tua prospettiva nei confronti di questo tema?
Ho sentito il bisogno di rappresentare una depressione più ordinaria, non a un caso estremo. Di fronte al fatto tragico è più facile difendersi, sentirlo lontano dal proprio vissuto. Mi sono chiesta chi vedrà il film? Volevo che non ci fosse filtro, mediazione. Il caso estremo rende forse il film più vendibile, appetibile a un marketing dei mass media, ma comunica meno con il pubblico. Ho preso in mano un racconto che avevo scritto, dal titolo Baby Blues, in cui si scopriva il difficile rapporto tra una madre il suo figlio attraverso un diario e ho cercato di trasformarlo in un trattamento, evitando drammi estremi e retoriche tradizionali.
Quanto c’è di reale, di documentario in questo film?
Partivo da parecchio materiale documentario, interviste realizzate all’interno di associazioni di donne, ma è risultato impossibile utilizzarlo all’interno del racconto di fiction. E poi è nato il mio secondo bambino, che ora ha quattro anni. Un bimbo buonissimo che mi ha messo in crisi, anche se in senso positivo. Ho ripreso in mano il progetto e l’ho riscritto a quattro mani con il mio compagno Dario, quindi anche con un punto di vista maschile. Questa scelta mi ha fatto tornare all’idea originaria ma con una prospettiva differente.
Charlotte Rampling interpreta un ruolo decisamente atipico…
Abbiamo pensato a un personaggio che fosse parte della storia, ma che fungesse anche da narratore. Un po’ come nei film noir dove il detective ricostruiva i fatti a posteriori, con la sua voce narrante, rimettendo insieme i fatti come i pezzi di un puzzle. Questa idea ci permetteva di non dover seguire una cronologia esatta degli eventi. Non è stato facile trovare la persona adatta per questo ruolo, Charlotte Rampling era una delle nostre idee ma sembrava irraggiungibile. Ci serviva una donna, quasi anziana, che non fosse una madre, capace di creare una certa distanza dalla protagonista.
Emma è una giovane danzatrice. Perché la scelta di un lavoro così particolare?
La protagonista è una danzatrice, non solo perché il ballo rappresenta ottimamente la femminilità, ma abbiamo pensato che si tratta di un lavoro che implica una grande consapevolezza del proprio corpo. Da questo tipo di rapporto può nascere un grande conflitto interiore in una donna, nel momento in cui si realizza un cambiamento così grande che comporta una perdita di un equilibrio. Il corpo cambia e non necessariamente tornerà quello di prima. Nel film ci sono tanti corpi, c’è molta fisicità.
Il mondo maschile è sempre lontano?
Le figure maschili sono sostanzialmente due, il compagno di Emma che si rivela sostanzialmente un personaggio inadeguato e il maestro coreografo ma che resta comunque un personaggio marginale.
a cura di Carlo Prevosti
Sinossi
Pauline torna a Torino, sua città natale, per la prima volta dopo molti anni e riprende contatto con una conoscente, Angela, che ora dirige un Centro per la maternità. Qui Pauline intraprende una ricerca sulle esperienze e i problemi delle mamme di oggi, a partire da testimonianze, video, fotografie raccolti da Angela. Tra le donne che frequentano il Centro c’è Emma, una giovane danzatrice, bella e sfuggente, in crisi profonda: non sa come affrontare le responsabilità cui la maternità la costringe, vede la sua vita a un punto fermo, si sente sola e incapace.
Tra le due donne si sviluppa un rapporto di complicità che in un gioco di rispecchiamento porterà Pauline a fare i conti con il proprio tragico passato e permetterà a Emma di ritrovare la sua nuova identità di madre.
Muovendosi tra finzione e testimonianze vere, il film di Alina Marazzi affronta in maniera complessa il sentimento ambivalente provato dalle donne nei confronti dei propri figli, un affondo personale e suggestivo verso un rimosso della società.
Note biografiche
Alina Marazzi (Milano, 1964) ha iniziato come regista di documentari televisivi a carattere sociale, ha lavorato come aiuto regista per il cinema e ha collaborato con lo Studio Azzurro. Si è segnalata all’attenzione della critica e del pubblico internazionale con il suo primo film documentario Un’ora sola ti vorrei, ritratto della madre scomparsa prematuramente, di cui è ricostruita l’esistenza attraverso un montaggio dei filmati di famiglia girati dal nonno. Presentato a Locarno, il film riceve la menzione speciale della Giuria e il premio per il miglior documentario al festival di Torino. Nel 2007 dirige Vogliamo anche le rose, documentario poetico su quindici anni di lotte per l’emancipazione sociale della donna che intreccia il piano privato con la storia collettiva attraverso l’uso di filmati di repertorio e frammenti di diari. Tutto parla di te è il suo primo film di finzione.