Francesco Ballo è un filmmaker. Lo è stato molto prima di diventare docente a Brera, prima di essere storico del cinema, teorico, esploratore dei linguaggi di quegli autori americani ed europei che hanno fatto del cinema una forma d’arte complessa e in parte ancora inespressa. Ho in mente un film in Super8 che girò nel 1970 in occasione del matrimonio della cugina Bambi Lazzati: macchina da presa fissa, frontale e centrale rispetto all’entrata della chiesa, coperta in parte dall’auto degli sposi di cui si vede il posteriore, come dire: un incidente ottico, un elemento che si interpone nella visione precisa, rinascimentale, di suggestione keatoniana, mentre invitati e sposi tagliano l’inquadratura. Un filmato che salta fuori da un angolo della memoria e diventa file e accende una stanza delle meraviglie che porta alla luce altro cinema. Il cinema di Francesco Ballo, che da qualche anno ha prodotto un’enorme quantità di film sperimentali, alcuni dei quali brevissimi, esperimenti raccolti come appunti su un taccuino. Accorpati in raccolte numerate si ha la sensazione di un’opera unica composta da frammenti che dialogano tra di loro per trovare una strada narrativa non consueta.
Le recenti visioni milanesi al Milano Film Festival e al Filmmaker Festival arrivano allo spettatore come organi di un corpo vivo e dinamico, dunque connessi da un intricato circuito neuronale che fa girare immagini analogiche e digitali, la cui origine – per chi non conosce l’autore – resta perlopiù avvolta nel mistero. Prendiamo la successione cronologica con cui Ballo ha presentato a Filmmaker i suoi film: Alle origini, Esperimenti (raccolta 5), intervallati da Viaggio nell’entroterra, poi La calamita, La cometa cadente, lavori di breve durata, soprattutto gli esperimenti che non superano i due minuti, che seguono un ritmo musicale pur essendo muti. O meglio, film musicali dove la musica è l’immagine, un ritmo spazio/tempo legato a un preciso sistema metrico che ricorda il battito cardiaco di Dziga Vertov.
Il magnifico Alle origini (ca. 8′) è un approccio silenzioso agli Esperimenti che seguiranno, il film ha già in sé un mondo visivo e visionario che ritornerà a intermittenza, sempre più familiare, composto da ricordi personali, incubi, frammenti di filmati girati in un tempo lontano, un viaggio in America trasfigurato, strappi rubati da inquadrature di Buster Keaton, Roscoe Arbuckle, Joseph Lewis, e poi Milano, astratta e romantica, noir e francese, scontornata fino a scomparire o tradotta in un breve raggio spaziale che ha come epicentro l’abitazione del filmmaker. Abitazione, teatro e laboratorio, altro corpo avvolgente, che a tratti sembra abitato da fantasmi cinematografici, ma che si manifestano improvvisamente come in una trama surrealista più che horror. Lo schermo televisivo è assoluto protagonista, passa quasi tutto da lì: l’immagine analogica di Keaton in The Saphead o il volto infantile di Roscoe in The Cook si sfaldano, si impastano sullo schermo, e ancora di più per il passaggio dallo schermo alla macchina da presa per poi tornare su grande schermo quasi liquido. FILES appunto, riemersi dall’entroterra di un appartamento. Lo spettatore cerca attinenze, preme con la razionalità su un terreno che a tratti è fiabesco, poi sovrareale, malinconico, intimo. Bisogna guardare in serie, frammento dopo frammento, perché il bisogno di racconto lasci lo spazio ad una percezione che si fa immersiva.
In questo viaggio in cui le epoche si rincorrono, sono inevitabili le sporcature, gli sfocati, i ralenti e qualche accelerazione, le distorsioni dei pochi suoni, delle rare frasi: disorientante nella misura in cui lo è sfogliare una vita di immagini che si sono mescolate tra realtà e finzione, tra spazio privato e sale cinematografiche. Forse anche per questo l’immagine di Astrid Ardenti (collaboratrice di Ballo insieme ad Andrea Sanarelli) che legge le Umili prose di Puškin – non un libro qualsiasi – appare metafora risolutiva dell’intera visione. Fantasmagorie.
Alessandro Leone