Quando viene a mancare una figura di primo piano, che tanta importanza ha avuto nella storia del cinema, la malinconia è scontata, ma quando ci lascia qualcuno che, oltre ad aver firmato film imprescindibili, ha svolto un ruolo culturale e politico, raccontando come l’arte si leghi alla vita e all’impegno sociale, provo un senso di vuoto e di smarrimento diverso, più profondo e lacerante. Fernando Solanas, regista argentino scomparso la settimana scorsa, ha saputo trasportare sulla pellicola, con opere lucidissime e poetiche, i dolori di un’epoca attraversata da ingiustizie e drammi di portata storica, che dovevano essere raccontati al cinema e che la sua creatività ha fatto diventare patrimonio di intere generazioni.
Nato a Buenos Aires nel 1936, si era fatto conoscere in Italia nel 1968, infiammando la Mostra Internazionale di Pesaro e i giovani militanti di tutta l’Europa con La hora de los hornos (di cui lo stesso Solanas parla nel breve video che trovate in coda), lunga ricostruzione (quattro ore e mezza) divisa in quattro parti della recente storia argentina e latinoamericana. Il film era espressione anche delle teorie del collettivo Grupo Cine Liberación da lui fondato assieme a Octavio Getino, Gerardo Vallejo ed Edgardo Pallero con l’intento di modificare la realtà attraverso l’arte: inutile dire che in patria il film circolò per anni clandestinamente, e fu liberato solo con l’arrivo di Peron.
A causa della dittatura di Videla e delle numerose minacce, fu costretto all’esilio dal 1976 al 1983; si trasferì in Spagna e poi in Francia, dove realizzò Tangos – L’esilio di Gardel, che vinse il Leone d’argento – Gran Premio della Giuria alla Mostra di Venezia. Firmò poi altri coinvolgenti film di fiction, come Sur, premiato a Cannes nel 1988 (struggente film di protesta contro la dittatura e il destino dei desaparecidos) e El viaje, del 1991, viaggio alla ricerca del padre, di sé e delle proprie radici di un giovane diciassettenne, film che i suoi avversari politici tentarono di non far realizzare arrivando a sparargli nelle gambe, ma tornò spesso al documentario con opere coraggiose come Memoria del saqueo, premiato a Berlino nel 2004, denuncia del liberismo e della globalizzazione.
Meno di un anno fa, Solanas si era trasferito di nuovo in Europa per occuparsi di educazione, scienza e cultura come rappresentante dell’Argentina all’Unesco: abitava a Parigi, dove l’ha colpito il Covid.
Ecco, storie così, personaggi così non possono non vivere nel tempo e continuare ad essere esempi di coraggio e di coerenza, in tempi di disimpegno culturale, di vuoti a perdere, di ritorni nel buio: mi domando come possiamo farli conoscere, noi che li abbiamo conosciuti nella stagione dei cineforum con dibattito e degli infuocati movimenti di massa, soprattutto alle giovani generazioni. Sarà banale dirlo, ma in questo come in altri casi la memoria diventa un dovere civile, che ci può aiutare anche a trovare il senso delle cose, del vivere ponendosi domande continue: quando l’impegno e la ricerca diventano collettivi, è la vita stessa che crea nuove consapevolezze sociali e culturali, quelle che il grande cinema, a volte, fa diventare emozione di tutti.
Giulio Rossini