Sesta giornata con fulmini a ciel sereno che colpiscono gli inviati di Cinequanon al Far East Film Festival di Udine. Ecco le nostre recensioni:
THE DEVIL’S PATH di Shiraishi Kazuya, Giappone 2013. Durata: 128′
Un ibrido inconsueto, uno strano accostamento di generi, tre blocchi ben definiti e separati che si susseguono a formare un film per scelta disomogeneo ed incostante. Parte sulla falsariga di un inchiesta, con un giornalista che indaga sulle dichiarazioni di un gangster condannato alla pena di morte, che vuole vendicarsi di un businessman suo complice in alcuni omicidi che è ancora rimasto impunito. Prosegue come yakuza movie, mostrando torture ed omicidi perpetrati dalla gang con efferatezza ed una scomoda empatia con i carnefici. Si conclude in stile legal thriller, seguendo la battaglia in tribunale del giornalista e della sua testata che cercano di fare giustizia assicurando la galera alle altre persone che hanno collaborato ai delitti. Film costruito in modo complesso ma efficace e gradevole; da segnalare alcune scene di grande impatto, quasi insostenibili per la forte carica di violenza che le caratterizzano.
MAY WE CHAT di Philip Yung, Hong Kong 2014. Durata: 98′
Opera seconda di un regista che sa rivolgere uno sguardo fresco, affettuoso e al tempo stesso critico verso le nuove generazioni. Con un linguaggio dinamico ed innovativo Philip Yung ci regala un affresco complesso ed affascinante della smartphone generation, dipingendo i ritratti di tre ragazze adolescenti alle prese con la propria quotidianità. Nella prima mezz’ora il film segue freneticamente il complesso intreccio relazionale in cui le protagoniste sono coinvolte, mostrando stralci di conversazioni via chat e frammenti della loro esperienza di vita. In questo modo si delinea l’atmosfera, il contesto, la dimensione sospesa in cui le nuove generazioni di HK fluttuano senza meta. Legati al cellulare come un malato terminale al suo polmone d’acciaio: lo smartphone è lo strumento principale (a volte l’unico) attraverso il quale sono in grado di comunicare ed esprimere i propri sentimenti, non se ne separano nemmeno per cagare o per dormire. La loro vera vita viaggia su binari telematici; l’esperienza concreta all’interno del contesto sociale è per loro marginale, spesso incomprensibile o vacua. Le protagoniste del film sono incapaci di amare e provare affetto, di concepire il sesso senza un pagamento in cambio, cercano incontri con partners occasionali attraverso WeChat (un WhatsUP orientale) e faticano a relazionarsi ed approcciarsi diversamente coi coetanei; non sono in grado di stabilire rapporti col mondo degli adulti, che non può comprenderle, e sono prive di di un sistema valoriale che consenta loro di fare scelte o di avere un proprio personale metro di giudizio per distinguere ciò che è bene e ciò che è male. Come tutte le adolescenti borderline del cinema mondiale inoltre si drogano, si ubriacano, frequentano teppisti e via dicendo. Fin qui la trama è al servizio del contesto e il film esprime alti livelli di cinema e si eleva ben sopra la media del filone giovanilistico hongkonghese. Di punto in bianco però la pellicola cambia registro: come si sa gli hongkonghesi sono schiavi della narrazione e dell’action e anche in questo caso non riescono a farne a meno. Si comincia a concentrarsi sulla vicenda di una delle tre ragazze, che scompare misteriosamente senza lasciare tracce, e sulla affannosa ricerca delle sue amiche che per ritrovarla finiscono coinvolte in un losco giro di droga e prostituzione. Il film resta comunque gradevole, ma è tutt’altra cosa rispetto a quanto mostrato in precedenza: a livello visivo è piuttosto crudo, con molte concessioni alla nudità (sia femminile che maschile) e qualche spruzzatina di sangue, che gli valgono un CAT III come visto censura. In definitiva, un lavoro low budget particolare che si costruisce attraverso un linguaggio innovativo, quasi sperimentale: resterà sicuramente un film di nicchia ma merita una visione per la potenza visiva ed emotiva attraverso cui riesce a raccontare questa ennesima “doom generation”.
PEOPLE OF THE SLUM (Restored Classics in 2K) di Bae Chang-ho, Corea del Sud 1982. Durata: 108′
Un altro film della retrospettiva dedicata alle più o meno note pietre miliari del cinema asiatico. People of the slum è l’opera prima di Chang-ho BAE, è un dramma a sfondo sociale che, col pretesto di raccontare la storia di un ex-carcerato che cerca di riunirsi alla donna che ama, ritrae il mondo delle baraccopoli della periferia delle grande metropoli (la pellicola è stata girata nel 1982). Un mondo fatto di povertà, di sporcizia, di gente arida e semplice, di stenti e fatiche. Un mondo in cui l’occupazione quotidiana era cercare di barcamenarsi e sopravvivere. Un mondo all’epoca ignorato dal cinema, che nella Corea della dittatura militare difficilmente rivolgeva il suo obiettivo verso i più umili e verso i diseredati; un film coraggioso che dà voce a chi subisce i soprusi e vive negli stenti, descrivendo un’umanità vicina a quella dipinta dallo Scola di Brutti, sporchi e cattivi. La grana grossa della pellicola 16 mm e una fotografia rudimentale e sovraesposta danno bene si sposano con i soggetti e gli ambienti rappresentati e danno al lavoro un tocco di empatico realismo. Uno sguardo trasversale che si allontana dalla visone dominante del regime per raccontare una piccola e significativa storia di gente di poco conto.
Da Udine, Michele Orlandi