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Falling – Storia di un padre

Film destinato a fare incetta di Oscar. Può sembrare un azzardo audacissimo, eppure la strada ci è già stata indicata dalla recente storia del cinema, di cui l’Academy non è certo la più nobile espressione anche se resta un valvassore di alto lignaggio. La maggior responsabilità è da iscriversi all’industria hollywoodiana, ormai risucchiata nel suo matto horror vacui di effetti speciali, ghiribizzi artificiosi e diavolerie da epoca barocca; da questo e dall’incapacità di rinnovarsi, di mutare pelle come lucertola di primavera, adattandosi alle altrettanto rinnovate esigenze del pubblico. L’Academy pesca nel torbido, rimestando le limacciose acque del Sundance o di altri festival indipendenti, ed ecco che le perle sbucano puntuali per la cerimonia d’inizio anno: prima Il caso Spotlight (2015), quindi Moonlight (2016), Parasite (2019) e Nomadland (2020), adesso scommettiamo che anche per Falling – Storia di un padre si ripeterà lo stesso copione; non necessariamente con l’assegnazione dell’Oscar al miglior film, ma certo con una tempesta di onorificenze simile a quella piovuta sul film precedente del Mortensen attore. Si cita Green Book (2018) non a caso, visto e considerato che proprio l’ambita statuetta assegnata all’attore americano lo ha messo nella disdicevole ma profittevole condizione di paladino della diversità. Abbiamo perciò l’intero campionario della correttezza politica con tanto di famiglia omosessuale multietnica (Mortensen capofamiglia, l’asiatico Terry Chen nella parte del suo compagno, e la figlia adottiva rigorosamente ispanica, nonché i nipoti, cioè i figli della sorella interpretata da Laura Linney: una lesbica dal look alternativo e un presunto maschio dai capelli tinti). Per sottolineare da che parte stanno tutti, tranne il cattivissimo padre che vota Donald Trump e odia i gay, il regista non manca di inquadrare il santino di Obama incollato al frigorifero.

Certo viene in mente l’effetto Moretti, con diretto riferimento al patrio regista che, dopo aver girato Aprile (1998) sull’ascesa di Silvio Berlusconi, si sentì costretto a rintanarsi nel solco dell’impegno politico che buona parte del suo pubblico (nostrano e oltralpino soprattutto) da lui pretendeva. Ed ecco i girotondi, la perenne contestazione del caimano, la trasformazione dell’uomo in regista engagé, che dice il giusto per fare il bene. Vai a capire se anche per Mortensen sia scattato il medesimo meccanismo di identificazione, la stessa inquietante sindrome dell’eroe da cartellone che lo porterà a farsi marchio, timbro di riconoscimento, logo di immediato consumo ideologico. Non che sia un difetto, semmai una tendenza modaiola di quello che la Hollywood di un tempo aveva eletto a modello favorito: il melodramma. Falling è infatti inclassificabile al di fuori dello specifico di genere, nel senso che è mélo allo stato puro, soltanto riscritto e revisionato alla luce della ripensata sensibilità occidentale in tema di diritti civili. Di cosa parliamo con esattezza? Soltanto, e in particolare, di ciò che il sottotitolo lascia intendere, la storia di un padre che è innanzitutto la storia di un figlio; o la storia di un figlio, di ciò che è diventato e che sente di essere, grazie e per colpa del di lui genitore. Tutto qui, eppure in questo tutto è racchiuso, perfettamente condensato nella forma di una geometria semplice ma cristallina, l’intera e profonda complessità del film. Conflitti irrisolvibili, dolore, anaffettività.

L’intelligenza di Mortensen si riduce alla scelta del protagonista, Lance Henriksen, uno dei caratteristi più dotati del cinema che però non hanno mai beneficiato né di giusti riconoscimenti né di parti da protagonista (tranne per la serie Millennium ideata da Christ Carter, abbandonata alla fine della prima stagione per mancanza di audience). Chissà perché, si ha l’impressione che il baldo difensore dei diritti delle minoranze tenti l’operazione Nebraska (2013), con la riabilitazione in terza età del suo bravissimo feticcio. È un rischio calcolato, per cui vale la pena di parteggiare. Henriksen se lo merita, e qui mostra tutto il talento represso che l’industria dello spettacolo non gli ha mai tributato.

Per il resto, quanto servizievole miele: lui, il padre padrone, cattivissimo nei flashback giovanili (in cui è interpretato da Sverrir Gudnason), ancora più diabolico nel tempo presente, il tempo della demenza senile, della vecchiaia, della malattia; insomma un tempo atemporale, dove ricordi di gioventù si mescolano alla percezione sfasata di una contemporaneità senza più riferimenti. Il Mortensen regista ritaglia la parte del buonissimo per se stesso, attribuendosi quella del furbacchione in cabina di regia: quanto la malattia influenza il caratteraccio del padre? Quanto è insistita l’omofobia che gli viene cucita addosso come un comodo abito fatto su misura? A riqualificare la scaltrezza della pellicola, Mortensen segna due punti a suo favore: David Cronenberg nella parte di un proctologo, e l’idea, questa sì piuttosto interessante, che per una volta le colpe dei padri non ricadono sui figli: qui ne sono semmai la salvezza.

Marco Marchetti

Falling – Storia di un padre

Regia e sceneggiatura: Viggo Mortensen. Fotografia: Ronald Sanders. Montaggio: Carol Spier. Musiche: Marcel Zyskind. Interpreti: Viggo Mortensen, Hannah Gross, Laura Linney, Lance Henriksen, Terry Chen, David Cronenberg, Sverrir Gudnason. Origine: Canada, 2020. Durata: 112′.

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