«Mai accettare un dono da Zeus Olimpo», ammoniva Prometeo, rivolgendosi al fratello Epimeteo, nelle Opere e i giorni di Esiodo, specialmente, aggiungiamo noi, se questo dio vive in una dimora zen sperduta tra le montagne, irraggiungibile persino dagli elicotteri, e porta una folta barba nera da talebano.
Il beneficiario del dono, in questo caso, è Caleb (Domhnall Gleeson) un modesto impiegato informatico che lavora presso la multinazionale facente a capo al più importante motore di ricerca del mondo, produttrice altresì di un nuovissimo sistema operativo per smartphone che le consente di controllare il 94% del traffico telematico. Single, senza grandi ambizioni professionali, Caleb trascorre una vita monotona in un piccolo appartamento di Long Island quando, inaspettatamente, vince uno strano concorso riservato ai dipendenti dell’azienda, il cui premio consiste nel soggiorno di una settimana nell’inaccessibile dimora del miliardario fondatore della società, Nathan (Oscar Isaac), geniale e bizzarro programmatore, alla costante ricerca di nuove tecnologie da lanciare sul mercato. Giunto nel rifugio di Nathan, Caleb si vede inaspettatamente investito del compito di testare la nuova invenzione del magnate. Si tratta di Ava (Alicia Vikander), un robot umanoide ipertecnologico, dotato di intelligenza sofisticatissima e di un aspetto femminile mozzafiato. La tecnica scelta per l’esperimento è il celebre test di Turing, in virtù del quale Caleb deve riuscire a comprendere se la macchina che ha di fronte possiede o meno una coscienza propria.
Ma che cos’è la coscienza? Quando nasce? Dove va a finire quando l’organismo si decompone? E soprattutto, quali sono i suoi confini? Come stanno già insegnandoci le tecnologie moderne, sono i computer a svelarci l’arcano, quasi che l’uomo stesse lentamente imparando a conoscere il proprio “Io” attraverso gli oggetti di consumo, inventando, e non speculando. Non stupisce allora che in Ex_Machina sia proprio un robot a divulgare l’oracolo. Ava appare, infatti, il contenitore privilegiato di una dimensione a sé stante, dentro al tempo e fuori dal tempo contemporaneamente, ciò che Platone avrebbe chiamato kosmos symbolikos, uno spazio mitico generato dall’incontro tra l’aidon – forma atemporale dell’essere eterno e immobile sottoposto alla pura conoscenza divina -, e il kosmos chronikos – il divenire del mondo fisico, dove l’unica conoscenza possibile è la mera opinione, la fede smisurata, l’illusione che la realtà rispetti una consequanzialità lineare e causale -. «Ti piacerebbe conoscere la mia età?», chiede Ava a Caleb in uno dei primi incontri. «Ne ho uno». “Uno” non è né un anno né un giorno, è “uno” e basta: è l’unità assoluta e immobile dell’essere aidonico, che tutto conosce e che tutto racchiude nella concentrazione di un punto matematico. Ava s’impone da subito, quindi, quale essere mitico, dimostrazione palese dell’inattendibilità delle teorie antifisicaliste di Frank Jakcson: è una Mary che vive in una stanza in bianco e nero, ma che grazie alle informazioni ricevute dall’enorme database progettato da Nathan, sa tutto sui colori, e non ha bisogno di vederli con i sensi per sapere cosa essi suscitino emotivamente una volta proiettati sulle retine. Ava, non a caso, dimostra di conoscere di Caleb, molto più di Caleb stesso, al punto da correggere persino le sue convinzioni più radicate, come quale sia il primo ricordo di cui abbia memoria, il colore preferito, e così via. Ciò che il timido impiegato comincia comprendere, allora, è che la coscienza non è dentro all’uomo, ma fuori – «L’esterno programma l’interno» – e che, se si dispone di una raccolta dati abbastanza grande da registrare ciò che la gente frequentante il web guarda, ascolta, legge e crea, si è in grado di ottenere una mente superiore, dagli sviluppi neurali illimitati. «I miei competitor» – dichiara Nathan baldanzoso – «hanno creduto che i motori di ricerca siano una mappa di cosa pensa la gente, ma in realtà sono una mappa di come pensa la gente». Più che la figura biblica di Eva, allora, cui la sceneggiatura ammicca (giocando anche sull’assonanza tra i nomi Eva e Ava), l’affascinante robot di Ex_Machina ricorda quella di Pandora, la donna primordiale descritta da Esiodo, costruita da Efesto, su ordine di Zeus, per punire l’umanità dopo la ribellione di Prometeo, personaggio, quest’ultimo, al quale Caleb assomiglia, per quella pietà che il giovane impiegato dimostra di fronte alla condizione di schiavitù in cui versano i robot del dio delle telecomunicazioni e per l’iniziativa che deciderà di prendere.
Forgiata da moderne versioni telematiche di Athena, Afrodite e Hermes, Ava s’impone quale sapiente commistione di ordine e caos, immobilità e dinamismo, memoria e pensiero, e in quanto tale è destinata a riplasmare il mondo e condurre la specie umana all’estinzione. È Nathan stesso a riconoscerlo, quando chiede a Caleb di approcciarsi al test con un piglio antianalitico, vale a dire artistico, lo stesso con cui Jackson Pollock realizzava le sue tele: «non è studio, non è caso», bensì automatismo, «una terra di mezzo». Già, perché come insegnava, all’inizio degli anni ’80, il fisiologo americano Benjamin Libet, il gesto cosiddetto volontario è contenuto nello stimolo cerebrale che lo produce, il quale anticipa la coscienza di 300-350 msec. Ciò che crediamo essere una nostra iniziativa fa capo, in realtà, a un impulso che la precede di quasi mezzo secondo. La coscienza si limiterebbe quindi a prendere atto di quello che è già avvenuto all’interno della fitta rete neurale; e Ava dispone di una rete sconfinata, in costante espansione.
Ex_Machina è un film davvero ricco di spunti, vagliati attraverso dialoghi intensi, mai noiosi, grazie anche all’indolenza un po’ ruffiana del ritmo, cui fanno da contrappunto l’ottima fotografia e una caratterizzazione dei personaggi davvero riuscita. Si perdoneranno quindi ad Alex Garland le debolezze di alcuni passaggi, come l’esagerata ingenuità di Calab, il quale, per quanto non rappresenti un genio informatico del livello di Nathan, dovrebbe sapere che il test di Turing necessita di tre soggetti partecipanti, e non di due, di cui uno di sesso femminile – «a una I.A. non serve un genere, potevi fare una scatola grigia», congettura l’impiegatuccio con imbarazzante candore –. Si tratta certamente di un espediente narrativo, finalizzato a mettere Caleb a un punto preciso della storia, nella condizione di sospettare di essere lui stesso il robot testato dall’esperimento, così da determinare un climax di ridleyscottiana memoria, dagli sviluppi contenutistici interessanti che, in fin dei conti, valgono bene il rischio di compromettere per un istante il principio della suspension of disbelief. Già, perché se di primo acchito Ex_machina dà l’impressione di rivisitare, senza troppa originalità, alcune tematiche già presenti in pellicole come A.I. – Intelligenza Artificiale, Her, L’uomo bicentenario o Ghost in the Shell, è a Blade Runner a cui fa maggiormente il verso. Caleb, in fondo, non è che un Deckard capovolto, che squarciandosi le carni scopre, senza troppo entusiasmo, di non essere un robot, prendendo tristemente atto che, in fondo, uomini e I.A. non sono poi così diversi; che gli uni come gli altri, sotto la pelle, sono solo degli ammassi di fibre, fluidi e circuiti elettro-sinaptici per niente eccitanti. Ciò che rende l’essere umano tale, è qualcosa che va oltre la composizione organica del suo corpo: è il pensiero, l’emozione, l’immaginazione; è la capacità di immedesimarsi nel proprio simile, l’empatia, la teoria della mente; è la creatività, la quale si traduce anche nella menzogna, nell’inganno, quello stesso inganno che il mito greco vedeva incarnato proprio nella donna, e che fu disseminato nel mondo dopo la rottura del vaso di Pandora.
Al contrario di Blade Runner perciò, Ex_machina non ci restituisce un robot moralmente superiore all’uomo, bensì un essere tale quale a lui, per certi versi peggiore, poiché dotato di una capacità di conoscenza, di memoria e di accesso ai dati esterni indiscutibilmente superiore. Ava agisce per la propria sopravvivenza, è vero, ma il cinismo che dimostra nei confronti di Caleb, che l’ama e di cui lei conosce la dedizione e la bontà d’animo, è davvero esagerato ai fini del raggiungimento dei propri scopi. Ava, insomma, non è Roy.
Tornano a questo punto alla mente le parole dell’ebreo Shylock, ne Il mercante di Venezia di Shakespeare: «Se noi siamo come voi in tutto, vi assomiglieremo anche in questo./(…) La malvagità che m’insegnate io la metterò in pratica, e non sarà difficile che io vada anche oltre l’insegnamento».
Se la nuova generazione di I.A. è superiore alla specie umana, dev’esserlo allora in ogni aspetto, anche nella crudeltà.
Manuel Farina
Ex_Machina
Regia: Alex Garland. Sceneggiatura: Alex Garland. Fotografia: Rob Hardy. Montaggio: Mark Day. Interpreti: Domhnall Gleeson, Oscar Isaac, Alicia Vikander, Sonoya Mizuno. Origine: UK, 2015. Durata: 108’.