Il freddo. Il ghiaccio. La neve. La sfida della/alla Natura e quindi la morte. Il film dell’islandese Baltasar Kormákur, già ammirato per un buon poliziesco di confine quale Cani sciolti (2013), doveva contenere in due ore abbastanza precise di metraggio tutto questo ribollente magma di concetti affabulatori. Roba che da un settentrionale ti aspetteresti servita su un piatto d’argento, e invece no. Di nordico, di glaciale, di impietoso, in questo filmetto assemblato al mercatino delle pulci di Hollywood non c’è praticamente nulla, ma semmai il desiderio, il ghiribizzo, la pensata spacciata per innovazione. Kormákur, l’abbiamo visto con il film precedente, ha abbandonato il suo europeismo per girare pellicole di cassetta, pagate un tot al chilo e collocate alla meglio nella magica catena di consumi alimentari che è il cinema americano. Il fallimento era consustanziale all’operazione, talmente subodorabile che in effetti stupiscono le tante grida di giubilo che hanno mosso il pubblico di mezzo mondo: un cast stellare (Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Joshn Brolin, Keira Knightley, Emily Watson…), una valanga di soldi, un po’ di effetti speciali. Tutto qui. La pellicola ricostruisce, come sappiamo, la rocambolesca vicenda di alcuni alpinisti che nel 1996 tentarono la scalata della più impenetrabile montagna della Terra, finendone chi schiacciato, chi sconfitto, chi umiliato dalla sua stessa presunzione.
L’idea è nel suo inizio come nella fine, nel senso che Everest diventa sin da subito un film uroborico, attorcigliante, pieno di giunture che legano una parte con l’altra in un solo testo monosemico. L’Uno è il Tutto e tutto diviene l’Uno, nessuna differenza tra un punto e l’altro, una fessura, un addentellato, un cortocircuito. Da qualsiasi angolazioni lo si guardi, esso resta un imperscrutabile peana alla banalità, dove ogni cosa è assoggettata al pensiero che ne sta alla base, la scalata del monte, le personalità dei suoi baldanzosi avventurieri, le nevi e i venti sferzanti che come punteggiatura e contrappunto alle umane vicende scandiscono gli altrimenti morti tempi della narrazione. Ce n’era davvero bisogno? Kormákur annulla il fascino metafisico della Natura, si appropria dei suoi misteri lunari, frammenta il campo lungo per farne un pasticciaccio di primi piani e dettagli ridondanti: non si sofferma sulle cose, non elabora un suo ragionamento, scimmiotta la lezione di un Herzog per ridurne le visioni a un’accozzaglia più o meno disordinata di dati, momenti, manipolazioni digitali.
Il risultato è, come intelligentemente ha scritto Alessandro Tavola di Nocturno, “un audiovisivo dai sentimenti teleguidati e dell’empatia tutta parlata”.
Marco Marchetti
Everest
Regia: Baltasar Kormákur. Sceneggiatura: Simon Beaufoy, William Nicholson. Fotografia: Salvatore Totino. Montaggio: Mick Audsley. Musica: Dario Marianelli. Interpreti: Jason Clarke, Jake Gyllenhaal, Joshn Brolin, Keira Knightley, Emily Watson. Origine: USA/UK/Islanda. 2015. Durata: 121′.